Dalla pecora al Bit

Attività umane antichissime, come la produzione di materie prime, per esempio (sale, ferro), o alimentari, consentiva di disporre di merci che si potevano scambiare, attraverso il baratto. Un tempo la gente infatti veniva pagata con sacchi di grano, con polli, o con pecore. La parola «pecunia» deriva proprio da pecora.
Le pecore, come il grano, i polli, o i cammelli, erano le banconote del passato, quando non esisteva ancora la moneta. Però era un sistema scomodo. Anche perchè bisognava trovare le cose giuste da scambiare.

C’è in proposito una storia molto significativa per capire i limiti del baratto.

I maiali di Mademoiselle Zelie

Molti anni fa una cantante lirica francese, Mademoiselle Zelie, cantò la Norma di Bellini nell’isola Society. Per contratto doveva ricevere un terzo degli incassi. E così fu. Ricevette 3 maiali, 23 tacchini, 44 polli, 5000 noci di cocco, oltre a banane, arance, limoni, eccetera…
Ma Mademoiselle Zelie poteva fermarsi solo poco tempo nell’isola. E non poteva certamente mangiare tutto (del resto fu necessario dar subito in pasto agli animali la frutta e la verdura per il loro mantenimento). D’altra parte non era possibile portarsi maiali e tacchini nel viaggio di ritorno. Si trattava perciò di un compenso, certo, concreto, ma non trasferibile. E quindi inutilizzabile.

Proprio per questo, già nell’antichità molte popolazioni cominciarono a usare come mezzo di scambio delle conchiglie (trasferibili). Ma ben presto, appena nacquero le prime vere organizzazioni sociali, le autorità centrali iniziarono a battere moneta.
La moneta divenne subito un simbolo del potere, ma anche un bene concreto e naturalmente trasferibile. Come fu, in particolare, l’oro.
Al di là della disputa sul suo valore intrinseco, l’oro è, lo sappiamo, un metallo raro, inossidabile, capace di resistere quasi indefinitamente all’usura del tempo. Sono infatti pervenuti sino a oggi oggetti d’oro costruiti migliaia di anni fa.
Con le monete d’oro la gente faceva, in sostanza, un baratto d’altro tipo: metallo prezioso in cambio di altre merci.
Ad un certo punto, con l’invenzione della stampa, i governi cominciarono a dire: «Cari cittadini, invece di portarvi dietro tutte quelle monete, usate questi pezzi di carta, che sono la stessa cosa. Sopra, noi abbiamo scritto quanto valgono. Naturalmente, in qualunque momento, potrete venire qui da noi che le abbiamo stampate e vi daremo, se lo volete, l’equivalente in oro».
Così i pezzi di carta, le banconote, cominciarono a circolare. Non erano «beni» veri e propri, ma delle promesse. Delle promesse di pagamento.
Man mano che le società evolvevano, a queste banconote si affiancavano sempre più altre promesse di pagamento: assegni, cambiali, operazioni bancarie e contabili. Dalle merci si è così passati ai metalli preziosi, poi alle banconote, poi alle contabilità (in cui non ci si scambia neppure più i pezzi di carta, ma semplici numeri): e questi numeri sono diventati ora impulsi su un calcolatore elettronico.

Dalla pecora al «bit», insomma, ciò che ci si scambia è diventato sempre più evanescente, al punto che si parla ormai di moneta «immaginaria», cioè non coniata.
Le banche, per non perdere traccia di questi beni immateriali, tengono archivi contabili doppi, custoditi a molta distanza. Certe contabilità elettroniche vengono addirittura protette in depositi sotto le rocce, perché non vadano distrutte nemmeno in caso di catastrofe.
L’elettronica, infatti, ha fatto il suo ingresso in modo pervasivo nel settore monetario, e sta rivoluzionando certe classiche procedure bancarie.
[..]
Viaggiando sotto forma elettronica la moneta può ormai circolare alla velocità della luce in tutto il mondo. E permette di comperare e vendere istantaneamente su ogni mercato.
È l’azzeramento dello spazio e del tempo, come ha detto qualcuno.
Ma queste monete bit (o anche le vecchie banconote) rappresentano veramente ancora l’oro? O qualche altro metallo prezioso?
Sulle banconote c’è sempre scritto «pagabile a vista». Ma se si va alla Banca d’Italia, che le ha stampate, si possono convertire in oro?
No. Tutti i paesi hanno abbandonato da tempo la convertibilità delle banconote in oro. Per ultimi gli Stati Uniti nell’agosto del 1971, sotto la presidenza Nixon. Ciò è stato necessario, dicono gli esperti, anche perché non si sarebbe potuto accumulare (e trasferire) tutto l’oro necessario a coprire un fabbisogno crescente di beni e di scambi. Sarebbe stato un impedimento, per un’economia in espansione. Un po’ come per la vicenda del pagamento della cantante lirica in maiali e tacchini.
L’oro è tornato così a essere solo una materia prima: come il grano o il rame, o le patate. Sottoposto alle oscillazioni di mercato, dovute alle leggi della domanda e dell’offerta.

Questo divorzio tra l’oro e le banconote ha però creato un grosso problema, un problema che, in definitiva, è alla base della moderna politica monetaria: quello cioè di un adeguato controllo, per evitare che i pezzi di carta (o gli impulsi elettronici) si moltiplichino caoticamente per conto loro, senza corrispondere veramente a qualcosa.
Quando circolavano le monete d’oro, infatti, il controllo era più facile: c’era, per così dire, una regolazione automatica. Nel senso che queste monete (come i maiali o il pane) o si avevano o non si avevano. Se uscivano dal paese, il paese si impoveriva; se entravano circolava più ricchezza.

Ebbene, l’oro è stato sostituito, in un certo senso, con la fiducia nello Stato. Lo Stato cioè paga a vista con la sua credibilità, con la sua responsabilità. E per garantire questo suo ruolo deve poter effettuare dei severi controlli.

Noi tutti quando depositiamo soldi in banca, in pratica, creiamo un’altra moneta. Nel senso che questi soldi vengono rimessi in circolazione sotto forma di prestiti ad altre persone. Così lo stesso denaro appartiene contemporaneamente a 2 individui: a chi l’ha depositato e a chi l’ha preso in prestito.
Circolando in questo modo, la moneta può finanziare un prodotto nazionale sempre maggiore.
Lo Stato però deve stare attento che certi equilibri vengano sempre mantenuti: per esempio evitando che troppo denaro in circolazione provochi, in certe condizioni, l’innesco all’inflazione. Una moneta, infatti, deve avere sempre alle spalle qualcosa di solido, deve avere un’economia sana che la garantisca.
Una banconota, per lo Stato, in un certo senso è come un’azione per un’azienda: rappresenta una piccola parte dell’insieme. Se l’azienda produce e si espande, anche ogni quota-parte varrà di più. Se invece aumenta semplicemente il numero dei pezzi di carta (senza che ciò corrisponda a una crescita di ricchezza o di sviluppo), ognuno dei pezzi di carta, ovviamente, varrà meno.
Se un governo, per assurdo, volesse aumentare la ricchezza nazionale semplicemente stampando di notte altre banconote, tutta la moneta perderebbe proporzionalmente di valore e si svaluterebbe.
Occorrerebbero cioè più banconote per comperare le stesse cose di prima. Il che è la stessa cosa che dire che i prezzi aumenterebbero. Cioè ci sarebbe inflazione.
E aumenterebbe anche il costo del denaro o, come si dice comunemente, il tasso d’interesse; poiché chi presta denaro deve tener conto del fatto che se lo vedrà restituire svalutato.
Un individuo, infatti, può essere indotto a prestare ad altri i suoi risparmi (anziché spenderseli in consumi), perché di norma non consumando un uovo oggi spera di avere una gallina domani. Ma non si troverà mai nessuno disposto a prestare una gallina oggi per avere indietro un uovo domani…

In Italia è da tempo in corso una serrata competizione, tra i privati e lo Stato, per conquistarsi i quattrini dei risparmiatori.
Negli ultimi dieci anni lo Stato (sempre a corto di soldi per far fronte alla spesa pubblica e ai debiti) è riuscito a procurarsi una quota crescente di questo risparmio, a scapito degli investimenti produttivi. Ed è riuscito a farlo offrendo ai risparmiatori Bot e Cct ad alto interesse.
Questi alti interessi però hanno alimentato (e continuano ancora oggi ad alimentare) il deficit e il debito pubblico. E a volte i soldi così ottenuti non bastano neppure (pur rappresentando ormai oltre l’80% del risparmio)…

In passato, quando lo Stato non riusciva a vendere sul mercato tutti i suoi Bot e Cct, obbligava la Banca d’Italia a comperarglieli. Oggi la Banca d’Italia può rifiutarsi, come in tutti gli altri paesi moderni. Si dice che «ha divorziato» dal Tesoro. Ma a volte deve comunque comperarli per far fronte ai bisogni urgenti della spesa pubblica, cioè dei pagamenti che lo Stato deve fare per le pensioni, la sanità, i dipendenti, eccetera. E allora deve stampare nuove banconote.

Ed ecco quindi che entra in circolazione della moneta che non corrisponde alla creazione di nuova ricchezza, bensì alla creazione di nuovi debiti. Come diceva Epicarmo Corbino: «Un capo di governo, prima di creare moneta, dovrebbe amputarsi una mano!». (Oggi dovrebbero essere in molti  con i moncherini ai polsi, ha commentato un economista…). È un meccanismo perverso, che naturalmente indebolisce la nostra lira. E che mostra come il problema del controllo monetario è anche un problema di controllo della spesa pubblica. Cioè è il controllore che ormai deve controllare se stesso.

Tratto da Quark Economia – Per capire il mondo che cambia di Piero Angela, Garzanti 1986

 

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