IL TEATRO DI FIGURA
Il teatro di figura è una particolare arte teatrale che utilizza burattini, marionette, pupazzi, ombre, oggetti, come protagonisti dello spettacolo teatrale e segni di un linguaggio fortemente visivo e sensoriale.
Tra le tecniche più famose ci sono:
I burattini a guanto, o a bastone (marotte),
Le marionette a fili o a bastone (pupi),
I fantocci e i pupazzi,
Gli oggetti,
Le ombre e le silhouette (Ombre cinesi)
Il teatro nero, oggetti illuminati da un fascio di luce che si muovono su uno sfondo nero che cela anche l’animatore che li manovra. Il nero rappresenta il nulla, da cui scaturisce l’idea, il gesto, il movimento. Si vede ciò che si vuol fare credere, mentre si può solo immaginare ciò che veramente è.
(Teatro nero di Praga)
Il bunraku, un solo narratore canta tutti i ruoli di drammi storici o d’amore, accompagnato da un musicista di shamisen (strumento simile al liuto). Per ogni marionetta ci sono tre burattinai che la manovrano, visibili al pubblico.
(teatro Giapponese, divenuto patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO dal 2003).
Le origini del teatro di figura
Storicamente l’origine delle figure animate può essere attribuita all’India (Chesnais), dove si trovano tracce di spettacoli con marionette religiose risalenti all’XI secolo a.C. Il teatro di figura sembra aver preceduto il teatro con attori in carne ed ossa, perché la rappresentazione degli dei era una pratica vietata agli uomini. In questo senso, i marionettisti detti sutradhara (colui che narra, che tira i fili) erano figure sociali prese in grande considerazione. In Egitto e in Grecia classica venivano utilizzate nei riti sacri.
Con il passaggio dal teatro greco a quello latino perdono il loro carattere religioso a favore di un utilizzo ludico e ricreativo, divenendo rapidamente un gioco popolare. È durante il medioevo che nascono le tecniche tuttora in uso in Europa e i burattini vedono il loro diffondersi negli ambiti popolari, fuori dei fasti della Chiesa, che utilizzava delle statue animate per incentivare la fede dei cristiani.
“In Italia il burattinaio ha un’origine modesta, è perlopiù analfabeta ed il suo pubblico è il popolo della campagna o il non colto della città”(Bagno)
È intorno al XVII secolo che i burattini hanno il loro massimo splendore, quando la loro storia si mescola e si confonde con quella delle maschere della Commedia dell’arte. E cos’è in effetti il burattino se non la proiezione della maschera, che si allontana dal volto e dalla testa dell’uomo/attore per giungere, più autonoma, alle mani del burattinaio? Il braccio diviene così corpo e anima del burattino.
Di tutti i personaggi della Commedia dell’Arte è la figura di Pulcinella quella che riscuote il maggior successo e diventa l’emblema del teatro dei burattini dove si sviluppa autonomamente. Il Pulcinella burattino non è più servo e servitore, ma un archetipo di vitalità, un anti-eroe ribelle e irriverente, alle prese con le contrarietà del quotidiano e i nemici più improbabili. Il Pulcinella delle guarattelle è un protagonista assoluto, che affronta di volta in volta i personaggi più diversi, umani, animali o demoni.
Le Guarattelle
Con questo termine cinquecentesco si indica l’arte dei burattini napoletani. Il burattinaio usa i burattini a guanto di tipo tradizionale e per la voce usa la pivetta (strumento che si pone nel palato), di sicura e antichissima origine orientale.
L’opera dei pupi
Le testimonianze più “antiche” risalgono alla prima metà dell’Ottocento e documentano l’esistenza di pupi con armature molto rudimentali e incomplete. Alcuni studiosi del Settecento ritenevano che l’abilità dei pupari discendesse dalla maestria nel costruire e far muovere marionette di alcuni siracusani attivi già al tempo di Socrate e Senofonte. Nel seicento, Cervantes nel Don Chisciotte descrive un marionettista che rappresenta uno spettacolo di cavalieri armati. Esistono 4 distinte tradizioni dell’opera: quella palermitana, catanese, napoletana, pugliese….ognuna delle quali utilizza diverse tecniche nella costruzione e animazione dei pupi.
Riflessioni Pedagogiche
di Giovanna Simonetti
Il teatro dei Burattini ha origini molto antiche un po’ come quello delle maschere e delle marionette. Entrambe queste forme di teatro avevano lo scopo di far dire ciò che non si voleva o poteva dire in prima persona anche se erano destinate ad un pubblico diverso: più colto e nobile per le marionette, più rozzo e incolto per i burattini. Forse proprio per questo i burattini hanno sempre incontrato il favore della gente e sono stati espressione della voce del popolo che attraverso essi riusciva anche ad ironizzare sul potere. Il lavoro di burattinaio si tramanda in genere di padre in figlio. Proprio per la loro capacità di dare voce a chi non ne ha, il burattino viene utilizzato anche come mediatore in quei contesti in cui la comunicazione può risultare difficile assumendo sempre più una valenza educativa. A differenza della maschera che porta l’attore quasi ad identificarsi con essa, burattini e marionette permettono invece il giusto distacco dal pubblico ponendosi appunto come mezzo per arrivare al pubblico pur non confrontandosi direttamente con esso. Il burattino come dice Mariano Dolci è “un poco vero e un poco finto” nel senso che il bambino crede al burattino ma allo stesso tempo sa che è finto. Io personalmente credo che ci voglia una certa intelligenza anche emotiva che ci permetta di abbandonare per un attimo la razionalità e lasciarsi trasportare in mondi altri. Nella pratica educativa il burattino ha fatto la sua comparsa non solo nelle scuole dell’infanzia ed elementari ma anche nella riabilitazione psichiatrica.
“I bambini con i burattini sono molto vivaci e dicono una quantità di cose che sarebbero incapaci di dire a parole. Non perché i burattini inventino chissà che, ma perché sono un altro linguaggio.”
Mariano Dolci
Le storie in vernacolo sono un bel modo di riavvicinare i bambini alle loro culture di origine, sentir pronunciare al burattino le stesse storie che magari hanno sentito raccontare dai loro nonni in dialetto permetto loro di formare anche una corretta coscienza storica.
“Il bambino quando nasce non ha un’identità ma se la fa poco a poco e per conoscere la sua identità fa quello che farebbe con tutte le cose: le prende e ci gioca. Prendere e apprendere hanno la stessa etimologia ed è abbastanza indicativo. Il bambino gioca con la sua identità. I bambini di tutto il mondo sono sempre disposti a mascherarsi, a travestirsi, a far finta di, a dire “io rimango me stesso ma facciamo finta che questa è la foresta”, e tutto questo poco a poco forma la loro identità.”
(Teatro di animazione come strumento di integrazione Mariano Dolci)
Consiglio di leggere tutto l’articolo: Un poco vero e un poco finto: l’importanza della creatività
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STORIA DI UN BURATTINO
«C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.»
“Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” è un romanzo scritto da Carlo Collodi (pseudonimo dello scrittore Carlo Lorenzini) a Firenze nel 1881, ha come protagonista Pinocchio che l’autore chiama impropriamente burattino, pur essendo morfologicamente più simile a una marionetta (corpo di legno, presenza di articolazioni) al centro di celeberrime avventure.
Il personaggio di Pinocchio − burattino umanizzato nella tendenza a nascondersi dietro facili menzogne e a cui cresce il naso in rapporto ad ogni bugia che dice − è stato fatto proprio con il tempo anche dal mondo del cinema e da quello dei fumetti. Sulla sua figura sono stati inoltre realizzati album musicali e allestimenti teatrali in forma di musical.
C’è chi ritiene che Pinocchio, piuttosto che una fiaba per ragazzi, sia in effetti un’allegoria della società moderna, uno sguardo impietoso sui contrasti tra rispettabilità e libero istinto, in un periodo (fine Ottocento) di grande severità nell’attenzione al formale.
Le avventure di Pinocchio è anche uno sceneggiato televisivo in cinque puntate diretto dal regista Luigi Comencini e trasmesso per la prima volta dalla RAI nel 1972 con un cast notevole. Ebbe un grande successo, la sua magia rimase a lungo nella memoria, a noi bambini piacque molto il Pinocchio bambino, tanto birichino da risultare autentico, e il suo vestito di carta, memorabile e spesso riproposto come maschera di carnevale. Anche la colonna sonora composta da Fiorenzo Carpi, è stata molto apprezzata e gettonata.
La fiaba di Pinocchio
Questa è la storia di un burattino di legno, che ne combinava di tutti i colori, ma grazie al suo buon cuore riuscì a diventare un bambino in carne ed ossa.
Un giorno, un vecchio falegname di nome Geppetto si mise a intagliare un pezzo di legno che gli aveva regalato Mastro Ciliegia. Lavorandolo con abilità e destrezza pian piano ne uscì un burattino, il cui naso ebbe un bel da fare a modellarlo: taglia, lima, sega e accorcia, ma quello si ostinava a crescere. Lo stupore di Geppetto fu grande quando si accorse che il burattino rideva e sgambettava.
«Che ne farò di te? − Gli disse Geppetto, − ti manderò a scuola, diventerai bravo e ti darò un nome: Pinocchio!»
Geppetto era povero ma riuscì a procuragli dei vestiti, e nonostante fosse inverno e facesse freddo vendette la sua unica giubba per comperargli l’abbecedario. Gli diede qualche scudo d’oro, gli ultimi rimasti, e l’indomani Pinocchio poté incamminarsi verso la scuola.
Strada facendo giunse in una piazza dove vide un teatrino di marionette, e invece di andare a scuola si fermò a guardare lo spettacolo, si divertì come un matto e sul finire della rappresentazione si accorse che era già ora di ritornare a casa. Lungo la strada incontrò una volpe zoppa e un gatto cieco ai quali ingenuamente mostrò gli scudi d’oro.
«Conosco il modo di raddoppiare la tua fortuna!» disse la volpe a Pinocchio, «Seguici, ti mostreremo il Campo dei Miracoli, se sotterri là le monete all’alba ne troverai il doppio».
I tre camminarono fino al calar del sole, ma Pinocchio finì per rendersi conto che il gatto e la volpe avevano intenzione di derubarlo, s’infilò le monete all’interno dei vestiti e fuggì. Ma i due malandrini riuscirono ad acchiapparlo, la volpe infatti non era affatto zoppa e il gatto ci vedeva benissimo. I due furfanti decisero di appenderlo ad un albero a testa in giù fino a quando le monete non sarebbero cadute a terra.
Dopo qualche ora Pinocchio ormai sfinito consegnò le monete ai due furfanti che se ne andarono lasciandolo solo e lontano da casa. Una fata però, la Fata Turchina vide il burattino, era così triste da commuoverla, gli si avvicinò e gli chiese: «Che cosa ti è successo? Dove sono finiti i tuoi soldi?»
E Pinocchio: «Li ho persi!» ma non aveva ancora finito di parlare che il suo naso si allungò. E così ad ogni bugia, tanto che crebbe a dismisura. Pinocchio scombussolato chiese aiuto alla fata, la quale era buona e chiamò un picchio affinché gli accorciasse il naso a colpi di becco.
«Vorrei diventare un bravo bambino!» piagnucolò Pinocchio.
«In questo caso − rispose la fata − dovrai essere buono e andare a scuola».
Pinocchio si rimise in strada deciso a tornare da Geppetto. Ma ahimè! Ad un certo punto incontrò una banda di monelli che stavano andando al Paese dei Balocchi, e si lasciò convincere a salire sulla carrozza tirata da sei asinelli e piena zeppa di ragazzi.
Il viaggio durò tutta la notte e Pinocchio una volta arrivato al Paese dei Balocchi insieme agli altri, fece la vera vita del fannullone. Ma una mattina al risveglio si ritrovò tutto ricoperto di peli grigi e con le orecchie lunghe, lunghe…
Erano diventati tutti degli asinelli… che vergogna!!
Il povero ciuco finì per essere venduto a un circo nel quale, in cambio di un po’ di fieno, doveva lavorare ed esibirsi in pubblico.
Ma un brutto giorno si azzoppò e tornato un povero burattino di legno, Pinocchio si rifugiò sul carrozzone di Mangiafuoco, dove trovò rifugio tra le altre marionette. Partecipò con loro allo spettacolo per grandi e bambini, ma fu scoperto da Mangiafuoco che ne voleva fare legna da ardere.
Egli riuscì a fuggire e si ripromise di essere buono, ubbidiente e di cercare Geppetto che, venne a sapere, era disperato e stava girando il mondo alla ricerca del suo burattino.
Pinocchio finì per trovare Geppetto sul fondo del mare, nella pancia di un’enorme balena che lo aveva inghiottito. Scorgendo lontano un lumicino avanzò un poco e vide un vecchio triste e solo, seduto a un tavolo con un mozzicone di candela acceso. Il burattino riconobbe Geppetto e gli gettò le braccia al collo.
La fata Turchina che vegliava su di lui, aveva fatto in modo che lo ritrovasse e Pinocchio disse a Geppetto: «Presto babbo, fuggiamo a nuoto!»
Così mentre la balena dormiva tenendo la bocca aperta, Pinocchio e Geppetto si diedero alla fuga. Lo stesso fece un tonno che gridò loro: «Attaccatevi a me» e in breve tempo raggiunsero la riva.
Ma dopo la brutta avventura Geppetto si ammalò e di lui si prese cura Pinocchio, che di giorno lavorava e di sera studiava per imparare a leggere e scrivere.
Fu allora che la Fata Turchina decise che era giunto il momento di premiare Pinocchio, trasformandolo in un ragazzino in carne ed ossa, come lui aveva sempre desiderato.
Quando Pinocchio si rese conto di essere diventato un bambino, un VERO bambino, abbracciò il padre che per la contentezza guarì completamente.
E da quel giorno Pinocchio e Geppetto vissero felici per tanti e tanti anni.
«Caro Pinocchio ci sono due specie di bugie: quelle che hanno le gambe corte e quelle che hanno il naso lungo. Le tue per l’appunto sono di quelle che hanno il naso lungo…»
da Pinocchio di Luigi Comencini
Di questa fiaba esistono varie versioni che includono altri personaggi, come il Grillo parlante che rappresenta la voce della coscienza e cerca di indirizzare sulla giusta strada il comportamento di Pinocchio; Lucignolo che è un ragazzino irresponsabile che combina guai e tenta di trascinare gli altri a seguirlo sulla brutta strada.
Nel romanzo di Collodi, il cui titolo originale è “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” sono inclusi molti altri personaggi, la trama stessa è molto più articolata e per certi versi più cruda, più adatta a lettori adulti.
La fiaba invece nel corso del tempo è stata riadattata, raccontata in modi diversi meno focalizzata sulla paura, poiché anche la sensibilità dei lettori e il contesto storico e sociale sono cambiati, mantenendo però intatto il suo fascino e la sua capacità di insegnare lezioni importanti.
Questa fiaba infatti insegna ai bambini (e non solo) che dire bugie, non ubbidire alle persone che vogliono il nostro bene non è una buona cosa.
Infondo Pinocchio è fortunato, è un burattino amato. Gli si chiede solo di rispettare alcune regole per imparare cosa è bene e cosa è male, che la vita non è solo divertimento, ma anche fatica e impegno che temprano il carattere e rafforzano l’autostima. Si sa che chi trova le cose troppo facili non trae alcuna soddisfazione e finisce per perdersi… magari per un malaugurato incontro con una volpe zoppa e un gatto cieco.
Un tempo si usava dire che quando si dice una bugia la si vede in fronte, come un’ombra. Un metodo efficace nel suggerire che le bugie sono facilmente riconoscibili, e che chi mente difficilmente riesce a nascondere bene la verità, perché spesso il volto, la mimica, la postura possono rivelare le emozioni e i sentimenti di una persona, rendendo difficile nascondere una bugia.
Può capitare a tutti di dire una bugia, l’importante è poi porvi rimedio e far sì che non diventi un’abitudine.
Un vecchio proverbio dice: “Una bugia tira l’altra”, comporta che per coprire la prima bugia ci troviamo costretti a dirne altre, e risulta poi difficile smettere. Inoltre condizione imprescindibile per i bugiardi è essere dotati di un’ottima memoria per ricordarle le bugie, o si viene scoperti… ma alla lunga prima o poi si tradiscono tutti.
Un altro proverbio dice: “Chi non sa dire bugie crede che tutti dicano la verità”, è davvero sconfortante rendersi conto che qualcuno di cui ti fidavi è una persona che ti ha mentito, rischia di non avere più la tua fiducia. Specie poi se diventa una pratica diffusa nella società, non si riesce più a capire dove sta la verità, si alimenta il sospetto e il dubbio circa la buona fede dell’altro, si inquinano le relazioni umane e sociali.
E infine: “A forza di dire una bugia, si finisce col crederla una verità” questo proverbio è per i mentitori seriali, i quali si creano una realtà fittizia e finiscono spesso per essere convinti che a mentire siano proprio gli altri.
C’è poi un altro aspetto su cui le opinioni divergono se sia giusto o sbagliato, riguardo: le omissioni, cioè il tralasciare di dire una determinata cosa, e le cosiddette “bugie bianche”, il fine in entrambi i casi è di evitare che qualcuno possa essere ferito profondamente o messo in pericolo, o che una situazione grave o pericolosa possa degenerare.
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LETTERA A PINOCCHIO
Lettera A Pinocchio – Piccolo Coro Mariele Ventre
1959 – Prima edizione dello Zecchino d’Oro. Cino Tortorella strutturò lo spettacolo come una successione di momenti rievocativi (con qualche libera interpretazione) della favola di Pinocchio, sino al momento in cui in scena si faceva rivivere la nascita dell’albero degli zecchini d’oro, da cui il nome della rassegna canora. Lettera a Pinocchio (dal famoso incipit Carissimo Pinocchio, amico dei giorni più lieti), dedicata al famoso burattino di legno, scritta da Mario Panzeri sulla musica di un brano popolare di pubblico dominio, intitolato Canzone romana, ha conosciuto una straordinaria fortuna anche al di fuori della manifestazione canora ed è stata interpretata poi da Quartetto Cetra (1960) Johnny Dorelli (1961) Gigliola Cinquetti (1975) e da Bing Crosby.
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