Pietro Mennea nasce nel 1952 a Barletta (Puglia), cittadina sull’Adriatico tanto ricca di storia e monumenti quanto avara di opportunità e strutture per i più giovani (ma con una lunga litoranea per allenare futuri campioni).
Terzo di cinque figli, papà Salvatore sarto e mamma Vincenza casalinga, frequenta sin da piccolo la palestra della strada, attività ricreativa prediletta dai ragazzini meridionali.
Le partite a pallone all’oratorio, le lotte tra amici, le corse improvvisate attorno la Cattedrale sono la normale routine del ragazzino che man mano comincia a mostrare una spiccata attitudine per le sfide. Si pensi alle fughe notturne da casa all’insaputa dei genitori per sfidare e vincere le auto sul corso, sfide oggetto di accesissime scommesse molto spesso finite a botte.

Questi gli ingredienti determinanti di una gioventù vissuta all’aperto, ingredienti che forgiano nell’introverso personaggio una personalità tosta, solida, quella che gli permetterà nel corso della vita, non è superfluo ripetere, di andare sempre a capo, di non fermarsi mai, nemmeno quando l’ostacolo sembrerà insormontabile.

Per Mennea il momento delle prime scelte, quello in cui l’adolescenza agita con tutti i suoi quesiti e l’irrazionalità difficilmente è domabile, avviene in un periodo particolarmente movimentato, in cui focolai di un Sessantotto irrequieto made in USA serpeggiano in Italia e persino nell’apparente calmo sud, in cui la tensione spaventa una nazione e la propria coscienza a furia di attentati, in cui i ragazzi sognano con i Beatles e Cassius Clay.

È in quei momenti che la fortuna di avere una guida, chi decide al posto tuo, può cambiarti la vita.
La figura centrale, ripete sovente Pietro Mennea, è stata il Prof. Autorino, avvocato senza toga, professore di educazione fisica e pigmalione di colui che da lì a breve, sarebbe diventato per gli sportivi italiani la “freccia del sud”, facendo impazzire un’intera nazione, colmando quel gap atletico mai digerito nei confronti dei “mostri” di colore e del superatleta dell’est (il suo idolo Borzov), sfidando atleti strutturalmente più equipaggiati, forse solo in apparenza, per trionfare.

Il prezzo da pagare per un giovanotto pieno di sogni è molto alto: è inevitabile che le “fughe” a Roma con gli amici per “catturare” donne, gli atteggiamenti irrequieti per esser fedeli ad un progetto più utopico che concreto, debbano lasciare il posto in quell’epoca ai sacrifici, alle rinunce.
Qua è l’uomo che decide.

È da qui che passa la strada per il successo, “solo dal duro lavoro e dalla dedizione si può costruire una carriera importante”, avrebbe spiegato più tardi Primo Nebiolo, figura molto cara e vicina nel corso degli anni a Mennea; Pietro Mennea ha le idee chiarissime.
Allora l’avventura scolastica e il diploma da ragioniere, le continue sconfitte nella palestra della scuola contro l’imbattibile amico Pallammolla restano alle spalle. Il poco credito avuto dai suoi osservatori perplessi dalla gracilità fisica del ragazzo, diventano punto di partenza per un modello di vita esclusivamente poggiante su allenamenti senza tregua, dove le festività esistono solo sul calendario e le distrazioni non han ragione di essere.

La convinzione nei propri mezzi, un trainer severissimo quale Vittori (ma non si deve dimenticare il prof. Mascolo), la voglia di emergere ed il pugno rivolto al cielo di Tommie Smith rappresentano la spinta decisiva per provare a sognare, per fare di un uomo del sonnecchiante sud un campione.


Primo Nebiolo con Pietro Mennea e Carlo Vittori

Gli allenamenti lunghi e solitari accompagneranno Mennea per tanti anni, interrotti solo dalle competizioni, dai suoi ritiri e dai suoi rientri testardi e silenziosi.
Silenziosi come gli atteggiamenti sovente assunti dall’uomo, un uomo ancora oggi da esplorare in alcune sue sfaccettature, quell’uomo che ha sempre rivendicato un suo spazio accanto al campione, quell’uomo di pochi gesti, di complicità sottili condivise con pochissime persone.
Quell’uomo che con maggior morbidità nei confronti del sistema sarebbe stato “socialmente” più considerato, quell’uomo spesso in antitesi con l’esterno per troppa fedeltà a se stesso, poco simpatico ad una parte di stampa che in ogni caso non ha mai potuto ignorarlo, ma nemmeno cercato quando c’era da fare chiarezza.

Quell’uomo che non è riuscito più a sentire suo un mondo che gli è appartenuto e che ha rappresentato per oltre un decennio.

Quell’uomo che continua ancora oggi a battersi, a riproporsi, a polemizzare se è il caso, proprio come quando gareggiava, perché non si diventa campioni se non si è prima uomini.

di Carlo Ruggiero

 

PIETRO MENNEA – LE GRANDI VITTORIE
(Mosca 1980)

[..] Le olimpiadi moscovite non erano nate sotto una buona stella. Molti paesi occidentali avevano boicottato i Giochi per protestare contro l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa sovietica. E così gli atleti di U.S.A., Germania Ovest, Canada, Giappone ed altre nazioni importanti erano stati costretti a rimanere a casa.
Anche l’Italia in un primo momento non avrebbe dovuto partecipare in quanto il governo aveva espressamente invitato il CONI a disertare Mosca, ma il nostro massimo ente sportivo dette prova di grande e saggia autonomia organizzando lo stesso la spedizione olimpica. Il governo italiano se la legò al dito negando alla delegazione azzurra l’uso del nome Italia e del Tricolore nonché l’autorizzazione agli atleti militari di lasciare il paese: fortunatamente Mennea aveva già svolto gli obblighi di leva.

Pietro era partito per la sede delle Olimpiadi teso e preoccupato per via del clima incerto che circondava l’evento; come abbiamo più volte visto, la mancanza di serenità gli aveva sempre nuociuto. In effetti la prima gara, i 100 metri, non era andata per niente bene tanto che Mennea aveva mancato la qualificazione per la finale, vinta poi dal forte scozzese Alan Wells. Ma lui aveva deciso di puntare tutte le sue chances sulla gara prediletta, i 200 metri.
I turni di accesso alla finale filarono via tranquillamente, era arrivata l’ora della resa dei conti: 28 luglio 1980, ore 20 circa; gli avversari da tenere d’occhio erano Wells (che aveva sorpreso Mennea l’anno precedente in Coppa Europa), il giamaicano Quarrie (l’oro di Montreal) ed il cubano Leonard (autore di brillantissime prestazioni). A Mennea venne assegnata la scomodissima 8^ corsia, quella dove non si ha alcun punto di riferimento perchè gli avversari sono tutti dietro; Pietro non la prese bene e ciò aumentò il suo nervosismo. Wells era dietro di lui, in 7^, Quarrie più distante, in 4^.

Lo starter diede il via: lo scozzese partì come una scheggia, la sua tattica prevedeva di raggiungere e staccare immediatamente Mennea per poi resistergli fino alla fine; quest’ultimo, da parte sua, ebbe una partenza quantomeno prudente, quasi volesse farsi superare dagli altri per poterne studiare la posizione all’entrata del rettilineo. A 50 metri dal termine il barlettano era però ancora in ritardo, almeno Wells sembrava irraggiungibile: qui iniziò una delle più memorabili progressioni della storia dell’atletica moderna, scandita dall’indimenticabile telecronaca del compianto Paolo Rosi:
«….recupera ….recupera ….recupera ….recupera ….recupera ….HA VINTO! ….HA VINTO! …. Pietro Mennea ha compiuto un’impresa straordinaria…».

Un buono, ma non eccezionale, 20”19 fu il tempo della grande impresa, ma cosa conta il riscontro cronometrico di fronte ad una medaglia d’oro olimpica? Mennea ruppe ogni cerimoniale perché fu l’unico vincitore a soffiarsi dalle grinfie dei severissimi addetti alla sicurezza sovietici, che avevano l’ordine tassativo di far sparire immediatamente negli spogliatoi i trionfatori delle varie gare: ed invece lui volle portare in giro per tutto lo stadio Lenin il suo famoso indice rivolto verso il cielo e salutare i pochi ma suggestivi tricolori sventolanti. Prima della fine delle Olimpiadi, un’altra soddisfazione: con i compagni Malinverni, Zuliani e Bongiorni si portò a casa il bronzo della 4×400. […]

di Raffaele Dambra


Video finale 200 metri di Mosca (28/07/1980)
telecronaca originale in italiano

Il mitico Pietro Mennea, campione olimpico dei 200 metri piani a Mosca 1980, è stato primatista mondiale della specialità dal 1979 al 1996 con il tempo di 19”72 che, tuttora, costituisce il record europeo.
Ha detenuto inoltre dal 1979 il record italiano dei 100 metri piani con il tempo di 10”01, (fino al 2018 anno in cui verrà migliorato da Filippo Tortu).

La popolarità di Mennea in Italia negli anni 1976-1978 era tale che venne citato in ben tre film dell’epoca: Febbre da cavallo (1976), I padroni della città (1976) e Travolto dagli affetti familiari (1978).

Pietro Mennea insieme a Sara Simeoni, è citato nel brano di Samuele Bersani del 2002 “Che vita!”

Nel marzo del 2012 la città di Londra, nell’ambito delle iniziative connesse ai Giochi olimpici di Londra 2012, dedica all’ex atleta barlettano una stazione della metropolitana cittadina (High Street Kensington).

Il 21 marzo 2013, nello stesso giorno della sua scomparsa, le Ferrovie dello Stato hanno deciso di intitolare a lui il primo treno Frecciarossa ETR-1000 che entrerà in funzione nel 2014 e sarà in grado di raggiungere i 400 km/h.

Il 12 settembre 2013 a Pietro Mennea è stato intitolato lo Stadio dei Marmi, impianto sportivo di Roma dedicato principalmente all’atletica leggera che sorge all’interno del Foro italico.

 IL FORO ITALICO

Il Foro Italico è un vasto complesso sportivo iniziato alla fine degli anni Venti, inaugurato nel 1932 come Foro Mussolini, venne completato nel Secondo dopoguerra in vista delle Olimpiadi del 1960 e terminato nel 1968.
Il complesso ideato dall’architetto Enrico Del Debbio ispirandosi agli stadi di Olimpia e della Grecia antica, sorge sulla zona a nord di Roma, adagiato tra le colline di Monte Mario. Nel corso del tempo grandi architetti italiani e grandi artisti hanno curato questo complesso sportivo nel rispetto del paesaggio in cui si inserisce, rendendolo unico al mondo.
Il Foro italico, in cui si sono cimentati grandi atleti con le loro grandi imprese sportive, comprende:
– lo Stadio dei Marmi con 60 statue di atleti donate dalle province italiane; dal 2013 lo stadio è intitolato al velocista Pietro Mennea,
– lo Stadio dei Cipressi (poi Stadio dei centomila e odierno Stadio Olimpico),
– lo Stadio del tennis dove si svolgono ogni anno gli Internazionali BNL d’Italia
– e lo Stadio del nuoto.

Una “città dello sport” dove si sono intrecciate storie di calcio, di atletica leggera, di scherma, di rubgy, di running, di tennis e di nuoto, di scudetti e di coppe, di primati e di medaglie olimpiche e mondiali; riconosciuta a livello internazionale come sede principale di grandi eventi sportivi e culturali.

Nel 2015 è stato inaugurato sul viale delle Olimpiadi il percorso “Le Leggende dello Sport Italiano – Walk of fame”; su tale percorso sono state incastonate 100 targhe recanti i nomi di leggende dello sport italiano, ex atleti che hanno scritto la storia dello sport nazionale scelti dalla Commissione atleti del CONI.

Le opere del Parco, dalle statue agli edifici, dai mosaici agli impianti sportivi, sono patrimonio indiscusso di inestimabile valore.
L’area del Foro italico, vincolata a verde perenne, rappresenta uno dei più vasti polmoni verdi della città di Roma.

Il piano di riqualificazione del Parco del foro italico, che rappresenta senza alcun dubbio un’opera straordinaria nel panorama architettonico e artistico del nostro paese, mira a salvaguardare la memoria storica di uno dei più avanzati centri sportivi del mondo, fulcro e simbolo dello sport italiano.

Mennea fu punto fermo nel mio fulgido e fantasioso immaginario di bambino che scopre lo sport. Pedina di spicco di un parterre scriteriato che comprendeva parabole letali disegnate con piede vellutato da Maradona, la bellezza folle e geniale di una volée di McEnroe o la tragedia dell’aviere Gilles Villeneuve, sbattuto ferocemente via dall’abitacolo nel suo utopico desiderio di acchiappare il vento. Lo sport, per me, è sempre stato quello. Solo quello. La miccia. Qualcosa che accendesse l’entusiasmo di una mente fantasiosa, pettinandone la pazzia. Si rifugia, trova sfogo, godendo di scintille romanzesche. La sterile vittoria, luccicanti batterie di gelide coppe fini a se stesse per appagare una qualche sete di vittoria, non mi hanno mai emozionato.

Il nome di Mennea riecheggiava durante le sfide a piedi nudi da ragazzi nelle polverose strade di campagna e tra vecchi mandriani o avvinazzati innanzi ai bar. Valicava il mito. “Vedi quello come corre…e chi crede di essere, Mennea?”. Pietro partendo dalla secchezza di quelle aride zone piene di ulivi dalle fronde rigogliose, ce l’aveva fatta. “La freccia del sud”, tra sprint, corse storte a tutta birra e nervi che lo hanno reso celebre nel mondo, e forse il più grande sportivo italiano di sempre. Fisico normale, asciutto, atipico per l’attività di sprinter. Senza formidabili fasci di muscoli debordanti, persino mingherlino rispetto ai colossi che lo circondavano: muscoli bianchi, reattivi e nervosi, su cui sporgeva un testone squadrato, occhi spiritati e la buffa scucchia da Totò.
Vedo tutta la storia del campione barlettano negli ultimi venti metri di folle rimonta alle Olimpiadi di Mosca 1980. Pochi, immensi, attimi. Bravura, rabbia, e la tenacia di chi era nato tra gli uliveti. Dall’ottava corsia, quasi ignorato dalle telecamere, risucchia tutti come birilli, brutto a vedersi, ma ugualmente splendido. Se li mangia e la spunta sul filo di lana esibendo una faccia da Masaniello spiritato. Splendido. L’idea di rimonta, ciò che di più avvincente c’è nello sport, si forgiò in me con quei pochi secondi. È in uno sguardo stravolto, con gli occhi fuori dalle orbite e il dito puntato al cielo.

di Picasso