Il contadino autosufficiente e la società industriale multinazionale


Il contadino autosufficiente

Un contadino, in passato, era quasi autosufficiente. Produceva il proprio cibo da solo, spesso si costruiva da solo anche la casa, si procurava l’energia per riscaldarsi e per cucinare, e tesseva persino molti dei suoi indumenti.
Gli avvenimenti che si svolgevano in altre parti del mondo raramente arrivavano fino a lui. O avevano comunque un’influenza molto limitata sulla sua vita. Una guerra in Medio Oriente, un’oscillazione del dollaro nei mercati valutari non modificavano sostanzialmente il suo modo di vivere.
Noi che viviamo, invece, in una società industriale diventiamo sempre più dipendenti dagli altri. Nessuno di noi, infatti, è capace di procurarsi cibo da solo, o di costruire un qualsiasi oggetto che usa quotidianamente: non solo un’automobile, ma neppure un paio di scarpe o un bottone. Persino un foglio di carta è un oggetto difficilissimo da riprodurre. E così una penna. Per non parlare di una lampadina, di un telefono o di un computer.
Tutti gli oggetti che usiamo (dal più semplice al più complesso) derivano da una catena di tecnologie, di imprese, di commerci, di trasporti che costituiscono la società industriale in cui viviamo.
A loro volta queste tecnologie, queste imprese, questi commerci, questi trasporti, dipendono da una più vasta rete di servizi che li circonda.
Per svolgere infatti le loro attività (cioè fabbricare, commerciare, trasportare) essi hanno bisogno a loro volta di energia, materie prime, sistemi di comunicazione, progettazione eccetera.
E queste cose hanno bisogno di altre tecnologie, imprese, trasporti, commerci e così via.
È insomma una specie di ramificazione a catena che non finisce mai. E ciò crea un sistema in cui tutto circola e si trasforma, con una serie di aggregazioni e strutture in continua evoluzione.
Ora, il fatto è che, in passato, i sistemi erano in larga misura ripiegati su se stessi. Vale a dire che una nazione viveva in gran parte delle cose che essa stessa produceva; i suoi scambi erano molto limitati, anche al suo interno, tra le sue aree geografiche. Le comunicazioni erano difficili, i trasporti lenti e costosi.
Oggi queste barriere stanno invece cadendo a una velocità crescente; viviamo in un mondo ormai aperto a una circolazione planetaria di merci, tecnologie, capitali, idee, prodotti. Un mondo anche estremamente sensibile a tutto ciò che accade lungo i circuiti, e a quello che vi transita.
Una crisi in Medio Oriente, per esempio, oggi (diversamente dal passato) provoca effetti a grande distanza. E così un’oscillazione del dollaro.
Cioè il sistema, come un organismo biologico, reagisce ormai a tutto quello che avviene anche in punti lontani; perché tutti i punti sono ora collegati dalla circolazione interna non solo di persone e di materiali, ma di segnali e di informazioni.

Intrecci, integrazioni, accordi

Il problema è che ricerca, innovazione, nuove tecnologie, sono sempre più costose e difficili. Le imprese (anche le più grandi) cercano allora di unire i loro sforzi con quelli di altre imprese (magari non proprio simili, ma complementari), di altri paesi o continenti.
Nascono così intrecci, integrazioni, relazioni che non hanno niente a che vedere con le tradizionali forme di espansione del passato, che erano basate esclusivamente sulle proprie forze interne.
In questo senso sta cambiando anche il concetto di impresa multinazionale: in passato si trattava di aziende di dimensioni gigantesche, che possedevano tutto al loro interno: ricerca, capitali, produzione, marketing.
Oggi il problema non è più di crescere di dimensione, ma di accedere a nuove tecnologie, in modo da poter ripartire i costi e i rischi e avere degli sbocchi su nuovi mercati. Si sviluppa così uno scambio non più di merci, ma di risorse immateriali, come appunto ricerca e informazione.
[..]
Capita così sempre più spesso di vedere un’impresa europea che si associa con un’impresa americana o giapponese (o con un’altra impresa europea) . E questo avviene non solo tra le grandi aziende, ma con alleanze che coinvolgono anche medie e piccole aziende.
Non si tratta più tanto di un gioco di Monopoli, in cui il più grande compra il più piccolo, e se lo inghiotte.
È piuttosto una strategia in cui ognuno dei partner cerca di rafforzarsi con un approccio più internazionale (o “globale”, come si dice).
Oggi infatti molte imprese, anche di dimensioni medio-piccole, stanno acquisendo un aspetto multinazionale (o meglio un aspetto “a rete”), attraverso una molteplicità di accordi che danno loro accesso a nuovi mercati, tecnologie e fonti finanziarie.
Anche perché c’è un’altra ragione pratica: così come si fanno delle coproduzioni cinematografiche per poter entrare contemporaneamente nelle sale di molti paesi, analogamente queste alleanze internazionali consentono di vendere parallelamente su molti mercati dei prodotti che spesso sono costati parecchio in ricerca e investimenti, ma che hanno un ciclo di vita relativamente breve. E che sono sovente insidiati da imitazioni e riproduzioni.
In questo modo è possibile ripagarsi gli investimenti, e continuare a investire in altre ricerche e in altre tecnologie.

Il ritardo dell’Italia

Quello che un paese esprime, in definitiva, è ciò che esce dalle sue strutture d’insieme, dai suoi laboratori, dalle sue scuole, dalle sue politiche. Dal suo contesto, insomma.
Ebbene, in un mondo in cui la ricerca e lo sviluppo tecnico-scientifico sono diventati la risorsa più preziosa, l’Italia (che pure dispone di ricercatori di altissimo livello in tutti i campi) spende in ricerca la metà degli altri paesi avanzati, proporzionalmente al suo prodotto nazionale lordo (e poichè il nostro prodotto è più basso di quello degli altri, le spese in ricerca sono in realtà ancora più basse).
Il problema, del resto, non è soltanto di quattrini. La ricerca non va vista come un settore a parte, corporativo, da soddisfare aumentando gli stipendi; la ricerca deve essere collegata col paese. Cioè deve essere come un rubinetto dal quale esce un flusso che pervade e fertilizza la società.
Un dato significativo, in proposito, è proprio quello della cosiddetta bilancia tecnologica. Noi acquistiamo dall’estero molti brevetti e licenze: un segno chiaro che c’è fame di tecnologia, e anche volontà di innovare. Ma a nostra volta vendiamo pochi brevetti e licenze. Un segno altrettanto chiaro che in questo campo abbiamo poca creatività.
Questi dati mostrano che, nella corsa per essere competitivi sulla scena internazionale, noi abbiamo un peso maggiore da portare sulle spalle. Che è quello, in definitiva, di un ritardo storico nell’ingresso nel mondo industriale: ma anche un ritardo nella cultura tecnico-scientifica.
Perciò diventa maggiore per l’Italia lo sforzo per mantenersi nel plotone di testa e per non perdere contatto con i primi che hanno ormai iniziato una fuga in grande stile.

Il plotone di coda

Ma in questo nuovo orizzonte internazionale non c’è solo il plotone di testa. C’è anche il grosso del gruppo che sta arrancando dietro, sempre più nelle retrovie.
Il nostro avvenire economico, infatti (e non solo il nostro), deve fare i conti non soltanto con i grandi paesi industrializzati, ma anche con i paesi in via di sviluppo, che si stanno ora affacciando alla tecnologia e all’industrializzazione.
Il villaggio globale, in altre parole, non ha solo un emisfero Nord, ma anche un emisfero Sud. Che sta crescendo. E che ha bisogno di merci e di servizi, e chiede di partecipare allo sviluppo. Noi tendiamo a ignorarlo, o a vederlo spesso come un terreno in cui esercitare i nostri buoni sentimenti (per esempio, cercando di affrontare i problemi della fame in certe zone molto arretrate).
Ma le dimensioni del problema sono assai più vaste.
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L’esistenza, in molti di questi paesi, di materie prime, di risorse energetiche e di manodopera a basso costo sembrava predisporli a uno sviluppo industriale nei settori cosiddetti maturi: come tessili, petrolchimica, meccanica.
Ma la rivoluzione tecnologica sta modificando anche qui molte situazioni.
I nuovi materiali sintetici e le biotecnologie cominciano a sostituire certe materie prime considerate fino a poco tempo fa indispensabili: per esempio il rame, che viene ora sostituito in buona parte dalle fibre ottiche, fatte a base di vetri speciali, con una materia prima reperibile ovunque in abbondanza: la sabbia silicea.
La micro-elettronica e la robotizzazione hanno dal canto loro automatizzato certe lavorazioni che richiedevano in passato molta manodopera. Il vantaggio quindi di una manodopera poco cara (ma anche poco qualificata), come quella esistente nel Terzo Mondo, sta riducendosi molto. Anzi, gran parte delle lavorazioni, a conti fatti, costano meno e sono di migliore qualità se fatte con l’automazione.
Quanto alle fonti energetiche, i paesi occidentali, spinti dalla crisi del petrolio, hanno risparmiato, hanno ricercato nuovi pozzi, altre fonti alternative, nuove lavorazioni, motori a basso consumo energetico.
Il risultato è che tra il 1972 e il 1983, cioè nel periodo acuto della crisi, i paesi occidentali e il Giappone hanno consumato sempre meno energia per fare le stesse cose.
È come se per andare da Roma a Torino si consumasse ogni volta meno benzina, pur facendo sempre lo stesso percorso.
È questo uno dei meccanismi all’origine del crollo dei prezzi del petrolio avvenuto nel 1986. Ma questa crisi dei paesi OPEC ha ora innescato un nuovo rimescolamento dei fattori, di cui non si vedono ancor bene le conseguenze, a lungo termine.
Una differenza crescente
Ma c’è infine un altro fattore che sta determinando una situazione del tutto nuova rispetto al passato: la crescente sproporzione tra paesi ricchi e paesi poveri nel numero degli abitanti.
I paesi ricchi si stabilizzano, dal punto di vista demografico; tendono persino a regredire. Ma la loro popolazione diventa sempre più vecchia.
Il Terzo Mondo, invece, è in piena esplosione. E aumentano sempre più i giovani, con tutto il loro potenziale. [..]

In un mondo superaffollato le vere differenze, probabilmente, continueranno a essere non tanto tra Est o Ovest, quanto tra Nord e Sud. Guardando già oggi il mappamondo ci si rende conto che è possibile tracciare una linea ideale che delimita due realtà molto diverse: al di sopra di questa linea c’è lo sviluppo industriale, cibo, lavoro, cure mediche, assistenza sociale, istruzione; al di sotto, tranne alcune eccezioni, sono diffusi il sottosviluppo, la disoccupazione, l’incertezza del futuro, l’ignoranza.
La situazione (a parte quella dell’Africa) sta ora tuttavia migliorando, specialmente nei paesi asiatici, con il miglioramento delle condizioni di vita e l’autosufficienza alimentare.
Paesi come l’India, l’Indonesia e la Cina sono diventati addirittura esportatori di beni alimentari. In molti paesi la velocità di crescita della popolazione sta ora diminuendo e il reddito sta aumentando, sia pur lentamente.
Il decollo economico rimane tuttavia difficile, specialmente nelle aree più arretrate.
[..]
Anche a livello mondiale si sentiranno gli effetti dei continui spostamenti di equilibrio che la tecnologia sta provocando nelle economie. E molti antichi sistemi di bilance rapidamente si modificheranno.
Noi viviamo infatti immersi in una miriade di pesi e contrappesi collegati fra loro, che si influenzano continuamente in vari modi e a vari livelli: dai più semplici ai più complessi, dai più grandi ai più piccoli.

Testo estratto da: Quark Economia – Per capire il mondo che cambia di Piero Angela, Garzanti 1986

*Immagini Pixabay.com

 

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