Angiolina Montagna, meglio conosciuta come Angela Casella ventiquattro anni fa diventò per tutti “Madre Coraggio“: il suo ragazzo era ostaggio dei rapitori da un anno e mezzo, lei scese nei paesi della Locride e si incatenò in piazza per chiederne la liberazione e la solidarietà delle donne di Calabria. Una storia che l’Italia non ha dimenticato.
foto di Gigi Romano
La storia
Cesare Casella ha 18 anni e mezzo quando viene rapito. Suo padre Luigi è proprietario di una concessionaria Citroën, la Casella srl, che si trova sulla Vigentina, alla periferia pavese. Dietro l’azienda vi è la casa di famiglia, che Cesare sta raggiungendo in automobile alle 20,25 di lunedì 18 gennaio 1988, una serata di fitta nebbia. Un’altra automobile blocca la strada al ragazzo urtando la sua. Due uomini lo prelevano con la pistola puntata e lo portano in un garage non lontano dal capoluogo. Qui Cesare trascorre una decina di giorni, in compagnia di un bandito che soprannomina “Maradona” in quanto tifoso del Napoli; per coincidenza, il nome del calciatore argentino verrà usato come parola d’ordine dei sequestratori nei contatti con la famiglia.
I mandanti del sequestro, mai trovati, fanno parte dell’anonima sequestri calabrese, ovvero la ‘ndrangheta.
È il 18 gennaio 1988.
Poi venne trasferito in Aspromonte, dove fu tenuto segregato in tre diversi nascondigli. Dopo un’iniziale richiesta di riscatto di otto miliardi di lire, i rapitori scesero a un miliardo: fu la somma che il padre Luigi pagò alla vigilia di Ferragosto del 1988. Ma l’anonima rilanciò e chiese altri cinque miliardi. I contatti tra la famiglia ed i sequestratori si fecero meno frequenti anche per l’intervento della magistratura che dispose il blocco dei conti correnti.
Era il 1989 venne in redazione e mi disse: “Polizia e carabinieri non fanno abbastanza, voglio andare nella Locride a cercare mio figlio, mi accompagni?”.
Una domanda che aveva una sola risposta possibile, sì.
Quella donna piccola e bionda saliva instancabile nei paesini, bussava alle chiese ed era riuscita a convincere i parroci a lanciare un appello dagli altari, “liberate Cesare Casella, ve lo chiede sua madre”.
Un messaggio rivoluzionario allora per quelle terre, una sfida non priva di rischi per chi si intrometteva dai pulpiti.
Dopo qualche mese Angela è ritornata in Calabria, con una tenda, incatenandosi ai cartelli dei paesi.
di Laura Montanari
La ricordo bene Angela Casella. L’immagine è nitida ancor’oggi. Era giugno del 1989 quando la vidi incatenata nella piazza dei Martiri di Locri davanti alla chiesa di Santa Caterina. Lì la conobbi e l’ammirai.
Appena la vidi rimasi sorpreso dalla sua figura esile, emaciata, fiera e umile a un tempo, sicura di fare affidamento sulle sue energie che sembravano inesauribili.
B.Gemelli
Da un’intervista a Monsignor Antonio Ciliberti, vescovo di Locri a fine anni 80
Lei incontrò Angela Casella quando venne in Calabria. Che ricordo ha di lei?
«Aveva una grande forza. La incontrai più volte e di lei ho ancora un ricordo molto vivo. Mi espresse la sua disperazione e la situazione di forte apprensione che lei e il marito vivevano per la sorte di Cesare. Mi descrisse una situazione emotivamente molto toccante e significativa. Io le dissi che la libertà dell’uomo, di qualsiasi uomo, è un bene sacro e nessuno può permettersi di metterla in discussione con la prevaricazione e il sopruso.
Cosa la colpì di lei?
«Sicuramente la grande forza e il grande coraggio. Era una donna semplice, ma allo stesso tempo capace di grandi gesti. Diventò un fenomeno mediatico, ma in realtà non era interessata più di tanto alla stampa e ai giornalisti. Voleva soltanto ottenere la liberazione del figlio ed era determinata a fare qualsiasi cosa pur di raggiungere il suo scopo. La sua passione di madre era semplicemente commovente. E venne in Calabria per proporre alcuni valori fondamentali come l’amore e il bene per il prossimo nei quali la civiltà umana deve ritrovarsi».
Si può dire che Angela Casella sia stata un’antesignana dell’impegno della comunità civile contro la ‘ndrangheta?
«Certamente sì. Ma io non interpretai l’iniziativa di Angela Casella di venire in Calabria come una sfida alla ‘ndrangheta, ma soltanto come un grande gesto d’amore nei confronti del figlio. In realtà è stata un esempio per tutti e per le donne della Locride in particolare. Ma anche per la Chiesa e la comunità civile e politica calabrese.
Sono andata in piazza dove c’era il municipio, ho aperto il tavolino ma la gente non veniva, non si avvicinava nessuno. Ho passato due ore da sola, alla fine ho pensato “se non vengono da me, vado io da loro” e, ricordo che passava una vecchietta le ho parlato e da lì, da una semplice vecchietta sono arrivati tutti »
Angela Casella
Piazza della Resistenza dopo le due ore di titubanza si riempì del calore della gente del paese. Anziane, giovani mamme, uomini e bambini.
Lei fu spinta a venire in Calabria certo per un disperato atto di amore verso il figlio, ma anche perché aveva capito che lo Stato era e si dimostrava molle, inerte, sconclusionato, sebbene gli sforzi investigativi andassero crescendo perché si era in pieno clima di sequestri di persona, la stagione tragica della Locride.
Angela Casella ebbe subito chiara una cosa: la qualità della caccia ai banditi era scadente perché poco dotata di intelligence. Da ciò derivavano altre due cose.
Primo. Occorreva un battage pubblicitario per mettere le spalle al muro lo Stato. E lei diede un’impronta mediatica mai vista prima.
Secondo. Occorreva una nuova strategia investigativa. Ed è tanto vero ciò che il “Caso Casella” fu uno spartiacque tra uno Stato passivo e uno Stato più attivo. Quella svolta ebbe un effetto dirompente, sicché un ciclone s’abbatté sulla credibilità e sul prestigio della Nazione. A un Paese che esportava un’immagine medievale si doveva dare un punto di sutura. Perché i sequestri di persona cessavano di essere un fatto locale, un cancro localistico, e diventavano, come diventarono, un fatto sociale di cui tutta la comunità doveva (o avrebbe dovuto più celermente) farsi carico.
E il “Caso Casella” s’affacciò nella vetrina internazionale. La sua forza era un lievito perenne. Non si accontentò di incatenarsi come fatto simbolico una tantum. Lei venne per smuovere, per capire, per conoscere l’ambiente, per interloquire con quel mondo a lei sconosciuto, lontanissimo, ostile. Ma lei superò ogni barriera, volle confrontarsi con tutti. Parlò con tutti, disponibile con la stampa. Aiutò le forze dell’ordine sebbene ci fosse un oggettivo diaframma per quella che poteva sembrare un intralcio al loro lavoro. Salì a San Luca e in atri paesi limitrofi, ovvero nell’epicentro dei sequestri di persona, reato odioso, per parlare con le donne del luogo. Da donna a donna.
di B. Gemelli
Ricordo bene – dice Caterina, oggi trentenne – quel giorno, c’era il sole e tante persone, la signora Casella piangeva, stringeva le mani e distribuiva abbracci. Povera donna quanto dolore traspariva dai suoi occhi»
«Ero una mamma come lei, mio figlio aveva alla stessa età del suo Cesare e l’angoscia della signora Angela era anche la mia, la nostra»
Con la forza di una madre disperata ma, allo stesso tempo determinata di «ritornare a Pavia con Cesare ».
Sempre con le catene al collo e alle caviglie:
«Mio figlio — diceva — è così da 17 mesi»
“Lo Stato in catene a Locri” titolarono i giornali e la foto di Madre Coraggio incatenata finì anche sul Time e su numerosi giornali stranieri. Il sequestro Casella, del resto, diventò un caso spinoso anche per il governo guidato da Giulio Andreotti. Lo Stato si mobilitò, stringendo il cerchio attorno alla ‘ndrangheta sino alla liberazione di Cesare Casella, la sera del 30 gennaio 1990, un mese dopo la cattura di Giuseppe Strangio, ferito ad una gamba dai Gis (Gruppi di intervento speciale dei carabinieri) dopo che si era presentato ad un appuntamento per riscuotere altri soldi per la liberazione del giovane di Pavia.
Angela Casella nei suoi soggiorni calabresi (il plurale segnala il suo calvario) fece ancora una cosa. Fece rete. Condivise altri drammi, s’integrò con quella parte della società calabrese che cominciava a reagire. Insieme a Maria Rombolà, la moglie del sindaco di Gioia Tauro ucciso dalla ‘ndrangheta, partecipò ad alcune iniziative antimafia che nacquero da movimenti spontanei. Grande donna!
«Il ruolo di questi soggetti-simbolo che con la forza delle idee e dei sentimenti riescono a mettere in crisi i sistemi e i modelli della vigente organizzazione sociale che ha come paradigma un ordine formale nel quale il cittadino è meno di nulla.»
Il sociologo Luigi Banconi dalle pagine de La Stampa (27/6/89)
Cesare Casella venne rilasciato presso Natile di Careri, in Calabria, il 30 gennaio 1990 dopo 734 giorni di prigionia e un miliardo di lire di riscatto (pagato il 14 agosto 1988).
Angela Casella è morta il 9 dicembre 2011 nella sua casa vicino Pavia, aveva 65 anni, negli ultimi tre ha lottato contro il male che l’ha portata via.
«Ringrazierò per sempre mia madre»
MILANO – Cesare Casella (44 anni) è diventato papà di una bambina, Cloe Angelina, sembra lontana l’immagine esuberante di quel ragazzo di 20 anni che, la mattina del 31 gennaio 1990, arrivò a Pavia scortato dalle gazzelle dei carabinieri dopo essere stato liberato dai sequestratori la sera prima a Natile di Careri, in Calabria e che abbracciò dopo tanto tempo la madre nella caserma dell’Arma. È un uomo maturo, papà di una bambina: «L’abbiamo chiamata Cloe Angelina, Angelina è il nome della nonna. Mi dispiace molto che mia mamma non abbia potuto godersi ancora un po’ la sua nipotina. Sino a Ferragosto le forze l’hanno sorretta: poteva stare con noi e coccolare mia figlia. Poi, purtroppo, il male non le ha più dato tregua».
di A. Incoronato
Cesare Casella ha scritto un memoriale che, successivamente, viene trasformato in un libro, intitolato 743 giorni lontano da casa. Il volume, edito da Rizzoli e scritto di concerto con il giornalista Pino Belleri.
Da questa vicenda nel 1992 viene tratto un film tv, Liberate mio figlio. Come si evince dal titolo, la storia (benché reinventata in alcuni dettagli, nei nomi e in parte dei luoghi) evidenzia in particolare la vicenda della madre. Questi argomenti sono doppiamente sentiti dal regista Roberto Malenotti: nel 1976 suo padre fu sequestrato e non fece mai ritorno a casa.
Io la voglio ricordare come quella figurina che si arrampicava leggera e solitaria nelle strade sperdute delle montagne sopra Platì,
la prima volta che siamo arrivate al Cristo di Zervò,
fra gli agrifogli e i pini, a mille metri sopra il mare:
“Qui mi sento più vicina a Cesare,
qui mi sembra di poter fare qualcosa, oltre a pregare”
Laura Montanari
LA STORIA SIAMO NOI: il sequestro Casella
Ricordo molto bene questo periodo e lo stato d’animo molto turbato per le sofferenze di questa famiglia, di insofferenza verso uno Stato che non rispondeva, che rimaneva in attesa sconfitto dalla mafia, di incredulità che una donna così minuta e semplice avesse una forza tale. Ricordo che questi sentimenti sono stati condivisi dall’intero popolo italiano.