Come eravamo – Operai e padroni

Testo riferito ad imprenditori veneti nei primi decenni del 1900

Seppur vincolati a quel vivere sociale imposto al settore imprenditoriale, (i Pellizzari) non mancarono di dimostrare la loro innata indole di personaggi popolari, con atteggiamenti di spontanea socialità e paterna convivenza. Alla base del loro sentimento prevaleva, nei confronti delle innumerevoli cariche onorifiche e sociali di cui furono investiti, quel senso impagabile di umanità e sensibilità che li univa al popolo. E ciò fu dimostrato pubblicamente in innumerevoli occasioni come quando il Commendator Giacomo, quasi cieco per cataratta, salì sul cassone di un camion e chiese agli oltre 1500 dipendenti scesi in sciopero e radunati nel cortile della fabbrica, cosa volessero. Alla risposta che chiedevano un aumento di paga, con una serenità degna di un padre che ha a cuore i propri figli ma anche l’integrità della famiglia, rispose:
«Se l’è dirito, nessùn ve lo tole, ma ‘sta barca fioi, la deve andàr vanti e par andàr vanti ghe vole anca chi rèma. Andè! Andè a remare, fioi. No’ la deve fermarse parchè la zè la vostra barca, no’ solo la mia!»
[Se è diritto, nessuno ve lo prende, ma questa barca figlioli, deve andare avanti e per andare avanti ci vuole anche chi rema: Andate! Andate a remare figlioli, Non la si deve fermare perchè è la vostra barca, non solo la mia!].

E gli operai silenziosamente e sicuri che “el Barba”, come lo chiamavano, avrebbe mantenuto i suoi impegni, ripresero il lavoro.

Una notte, alle quattro di mattina, il Commendator Giacomo girando da solo per i reparti della fabbrica, entrò nel reparto fonderia e vide che l’operaio addetto ai forni di colata (alto di statura, magrissimo, ma notissimo per la sua insaziabile fame) stava abbrustolendosi su un rudimentale attrezzo da lui forgiato, una trentina di fette di polenta abbinate a due o tre salsicce. Stupito chiese:
«In quanti sio che le magna?»
«Sior – rispose l’operaio – A so mi solo qua».
«Ben, alora magna cà te veda!»
[«In quanti siete che le mangiano?» «Signore, sono solo io qua» «Bene, allora mangia che ti possa vedere!»]

E se ne stette a guardare la scena. L’operaio, finito di mangiare, andò a bere dell’acqua in uno dei tanti rubinetti dei servizi. A questo punto, “el Barba”, chiese:
«ma parchè te bevi acqua?»
«Siòr paròn! No’ zè ch’el vin me fassa male, ma el capirà… co’ quel ch’èl costa!»
[«Ma perchè bevi acqua?» «Signor padrone! Non è che il vino mi faccia male, ma capirà… con quello che costa!»].

Il mattino seguente, alla stessa ora, il Commendator Giacomo ritornò in quel reparto e nascondendo dietro alla schiena un fiasco di vino durello chiese all’operaio intento a prepararsi la solita colazione:
«Sito sempre solo?»
«Siòr sì, paròn» fu la risposta.
«E chi zè che magna tuta ‘sta polenta?»
E l’operaio di rimando: »Mi e lù paròn! A go pensà che forse el podèa capitare e go dito a me mojere de zontare sinque fete. Le màgnelo?»
[«Sei sempre solo?» «Signorsì padrone» «E chi è che mangia tutta questa polenta?» «Io e lei padrone! Ho pensato che forse lei poteva capitare e ho detto a mia moglie di aggiungere cinque fette. Le mangia?»]

E mangiarono insieme bevendo durello che, come raccontò l’operaio agli amici, fu il più buon vino della sua vita.

(Aneddoti risalenti ai primi decenni del 1900)

A cura di Passo 8 Cineclub


Sorse agli inizi del 1900 in una zona prevalentemente agricola, dove ancora oggi il giorno di Ognissanti vi ha luogo una Fiera, che un tempo era prestigiosa nel commercio dei bovini e dei cavalli. Si racconta venissero mercanti fin dalla Polonia e dall’Ungheria e una poesia del 1877 parla di:

saltimbanchi… coccodrilli, leoni e orsi bianchi…
e l’uomo-bestia e poi la donna grassa
veder si ponno
al suon della gran cassa.

Nel 1901 nella Vallata del Chiampo, si innestò una fiorente industria elettromeccanica ad opera dell’artigiano Antonio Pellizzari, coadiuvato dai figli Giuseppe e Giacomo. Nel corso del tempo si impose nella zona come attività primaria in alternativa a quella della filatura della seta, settore destinato ben presto ad entrare in crisi per la concorrenza e per l’espandersi delle fibre sintetiche come il nylon.
Già nella seconda metà del 1800 la vocazione imprenditoriale tipica del territorio veneto aveva dato origine a opifici tessili che trattavano la lana, alla filanda sociale che lavorava la seta avviata nel 1872 da un gruppo di imprenditori del luogo, rimpiazzata più tardi dalla lavorazione delle pelli, che negli anni a metà del Novecento visse una diffusione a macchia d’olio. Vi fu chi invece si dedicò ad altre attività, dotando la zona di una rinomata cartiera, chi ad imprese edili, officine meccaniche, autotrasporti sviluppando uno spirito industriale e un’attività imprenditoriale multiforme.

Agli inizi la Ditta A. Pellizzari & Figli era un’impresa famigliare impostata sulla costruzione di molini da grano, attività integrata dalla riparazione di macchine agricole. Nel 1902 il figlio Giacomo, ultimati gli studi presso l’ancora oggi rinomato Istituto Industriale “Alessandro Rossi” di Vicenza apportò all’azienda paterna nuovi indirizzi tecnologici. Egli, con il suo apporto tecnico ideativo, importò la costruzione di molini per zolfo (secondo un nuovo processo di macinazione e contemporanea ventilazione) nonchè la costruzione di segatrici per legno, essiccatoi per bozzoli e, sempre coadiuvato dal fratello Giuseppe che mise a punto la produzione delle irrigazioni a pioggia, i primi esemplari di turbine e pompe con le quali la Pellizzari acquistò dimensioni e rilievo industriale.

Il recupero dei macchinari, trasferiti a Castellamare di Stabbia (Campania) durante la Prima guerra mondiale (1915-1918), l’incremento delle commesse della Marina Militare e Civile, la produzione  degli impianti di irrigazione a pioggia furono fattori che permisero alla Pellizzari una rapida riconversione della fabbrica. Riconversione facilitata anche dal raccordo con la linea elettrificata delle Ferro-Tramvie Vicentine che nel 1929 sostituì il tramway a vapore  gestito dalla società inglese “The Company of Tramway Vicenza-Valdagno-Arzignano” consentendo così una più sollecita spedizione dei manufatti.
La vitalità dell’azienda aveva intanto acquistato rilievo e dimensioni importanti sia per la solidità costruttiva quanto per la perfezione tecnica dei macchinari, precorrendo i tempi nella costruzione di pompe centrifughe di piccola e grande portata ad alta prevalenza. Ciò è documentato dal progressivo aumento delle maestranze, dall’ampliamento e dall’ammodernamento degli impianti produttivi verificatisi non solo nella Sede centrale di Arzignano ma anche a Lonigo, Montebello e Montecchio Maggiore e nella stessa città di Vicenza.
Nel 1929, con la morte del fratello Giuseppe, Giacomo è alla guida dell’azienda che mantiene il passo innovativo nel tempo espandendosi nel settore delle macchine elettriche, sviluppando produzioni di ogni genere: alternatori, trasformatori, generatori, turbocompressori e turboventilatori.

L’industria Pellizzari negli anni 30 è un nome che va per il mondo alla conquista di nuovi mercati: in Egitto, in Grecia, in Asia Minore, in India, in Cina, in Manciuria. In quell’epoca, è una significativa presenza del lavoro italiano all’estero, in gara, spesso vittoriosa, con la più qualificata produzione straniera. Vi è testimonianza fotografica di frequenti visite agli stabilimenti da parte di personalità imprenditoriali e autorità politiche.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, la  Società per Azioni A. Pellizzari & Figli contribuisce in varie occasioni a risolvere urgenti problemi di carattere nazionale ed interviene nel periodo della crisi di energia elettrica del dopoguerra con la rapidissima fornitura di duemila alternatori.

Partecipa ai soccorsi dell’alluvione del Polesine del 1951 con trentasei pompe di grande prevalenza per una portata complessiva di ottocentonovantamila litri d’acqua al minuto.

Nel 1953 dimostra solidarietà all’Olanda colpita da estese inondazioni, organizza una spedizione umanitaria che parte dalla stazione ferroviaria di Vicenza per Rotterdam. Vengono inviati tecnici, operai, macchinari sotto la supervisione dell’ingegnere Enzo Cuomo, che dà precisi resoconti giornalieri raccolti in un diario, sull’installazione di tre impianti idrovori. Un atto di solidarietà che fece conferire al già Cavaliere del Lavoro Giacomo Pellizzari, da parte della Regina Giuliana d’Olanda, la commenda dell’ordine di Orange Nassau.

L’Ordine di Orange-Nassau è un Ordine cavalleresco statale tuttora attivo, il cui motto è “Je maintiendrai” (Io manterrò), creato ad Amsterdam nel 1892 dalla Regina reggente dei paesi Bassi Emma di Waldeck e Pyrmont per conto della figlia minorenne Guglielmina.

Alla morte di Giacomo Pellizzari, avvenuta nel 1955, l’azienda prosegue il suo cammino sotto la Presidenza del figlio Antonio, che si trovò costretto a un  profondo e difficile lavoro di riorganizzazione aziendale secondo i più moderni criteri tecnici e industriali, inserendo la società nel settore dell’elettronica industriale. Mise subito a frutto i propri studi occupandosi della pubblicità in modo innovativo, con ricerche di marketing, documentari, creando dodici cartelli pubblicitari che gli varranno il primo premio al secondo Congresso nazionale della pubblicità di Genova. Si occupò anche di design industriale unendo l’estetica alla funzionalità, il Museo d’Arte Moderna di New York ha in esposizione il motore A da lui disegnato.
Allargò la produzione con la costruzione di apparecchiature di comando per macchine utensili, tessili, per laminatoi e per macchine continue a calandra di carta, ottenendo nuovi e notevoli successi.

Nel 1952 Antonio, uomo di elevati ideali, aveva già dato forma al suo sogno fondando la Scuola di Arzignano sull’esempio di Ivrea. Qualche anno prima aveva conosciuto a Milano l’imprenditore Adriano Olivetti, e aveva potuto ammirare e apprezzare il suo ideale di comunità realizzato nel Canavese. Egli condivideva l’idea di una cultura universale, comprensibile e fruibile sia dalla borghesia colta che dalla classe operaia. Mise così a disposizione degli operai e della comunità una biblioteca, una scuola di musica, un corso di canto corale e perfezionamento pianistico, uno di dizione e recitazione, proiezioni cinematografiche, conferenze, teatro, mostre d’arte, audizioni discografiche, pubblicazione periodica di un notiziario. Diede così vita a concerti di musiche antiche da lui diretti e creò un coro con gli operai della fabbrica, le cui esecuzioni del Gloria di Vivaldi e del Magnificat di Bach ancor oggi fanno testo discografico. Sostenne altre attività ricreativo-culturali come il Gruppo Folcloristico e la squadra di calcio.

Una mai più raggiunta ventata culturale investì Arzignano che in quell’epoca era strettamente legata al nome di Pellizzari, ventata che ebbe eco in Italia e all’estero, dando i suoi frutti e rimanendo radicata tuttora nel territorio e nelle genti nonostante l’avanzare di un’industrializzazione più cinica e dedita più al profitto.
Ma la febbrile attività nel rinnovare l’azienda, e il suo sforzo per migliorare la cultura del paese stroncarono la sua giovane esistenza nel luglio del 1958, a soli 34 anni. Ne derivò un susseguirsi di cambiamenti dirigenziali, ma nel tempo si percepì il tramonto della spontanea socialità e paterna convivenza che aveva così contraddistinto i fondatori, noti per la loro umanità e sensibilità che li univa al popolo, di cui il racconto che apre questa pagina è testimonianza.
L’azienda iniziata con 5 operai nel 1901 non riuscì a sopravvivere e cessò di esistere come “Ditta Pellizzari” nel 1971.

L’azienda quindi assunse una nuova sigla, la ELETAR. Nel 1973-74 cominciarono i veri problemi e si parlò di ridimensionamento, di licenziamenti a causa della crisi energetica dovuta principalmente all’improvviso blocco del rifornimento di petrolio dalle nazioni dell’Opec (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) a causa di una situazione mediorientale incandescente, poichè i Paesi arabi non riconoscevano il diritto dello Stato di Israele ad esistere.


«Noi crediamo che l’arte abbia una funzione e incida sulla vita degli uomini, li trasformi, li migliori, li renda più consapevoli della loro situazione nel mondo.»

«La comprensione di un certo linguaggio cinematografico o musicale o figurativo è condizionata da tutto un complesso di altre nozioni, da una formazione che per compiersi richiede appunto quei mezzi di cui nel mondo contemporaneo lamentiamo l’insufficienza.»

La musica, le arti figurative, il cinema, il teatro, la cultura insomma, non sono attività secondarie e staccate dalla vita dell’uomo; sono esse stesse l’uomo. E come il lavoro tende a risolvere il problema della vita di ogni giorno, così lo studio e la comprensione del linguaggio delle arti hanno come fine l’appagamento di quelle esigenze interiori che per l’uomo, per un costituirsi più armonico e unitario della sua personalità, non sono meno importanti.

Dal primo numero del bollettino La scuola di Arzignano, 1952

Oggi, credo, concordiamo tutti almeno su questo punto: che sia possibile costruire una società veramente moderna e civile solo con la collaborazione cosciente di tutti i cittadini. Ma questa collaborazione cosciente implica la cultura, il possesso delle forze della cultura da parte di tutti. S’intende però che quando parliamo di cultura in questi termini, non intendiamo nulla di dottrinario e astratto. Ogni cultura implica una visione del mondo, è definizione e chiarimento di una visione del mondo, è soprattutto un modo di vita. Perciò, come abbiamo affermato molte volte, cultura è per noi anche il rispetto della Costituzione repubblicana, la storia della nostra Resistenza, l’affermazione delle fondamentali libertà democratiche come condizione indispensabile per un reale sviluppo della vita politica e sociale, e ciò sempre in un vitale rapporto fra cultura e lavoro, cultura e vita, in opposizione a tutte le tesi romantiche ed estetizzanti. Inoltre, quando affermiamo la necessità di avvicinare il mondo della cultura al mondo del lavoro noi non pensiamo che il primo abbia solo da dare e il secondo solo da ricevere.
L’idea che esista una cultura già tutta fatta e che quando si parla di educazione popolare si intenda semplicemente la diffusione di questa cultura fra le masse, è un’idea da dilettanti che non sanno nè cosa sia la cultura nè cosa siano le masse. La cultura non può entrare nel mondo del lavoro se non trasformandosi essa stessa secondo lo spirito e le leggi di quel mondo. E trasformazione non significa – altro errore comune – semplice “volgarizzazione” o “popolarizzazione” della cultura, una traduzione in linguaggio per la piazza del sapere dei “dotti”, ma adeguazione a una nuova realtà. La cultura popolare non è un “regalo” della cultura alle masse; quando è intesa seriamente, essa costituisce un problema per la cultura stessa, una prova della sua validità e del suo modo d’essere. Portare la cultura a contatto con il mondo del lavoro significa realizzare uno scambio, una simbiosi, una trasformazione che opera in due sensi. E qui finisce l’idea romantica dell’artista o dell’intellettuale che vive in non si sa quale prezioso isolamento, sempre più remoto dal mondo della realtà quotidiana, sacerdote di misteriose quanto inutili religioni. In questo modo si ristabilisce il senso delle proporzioni, della misura e della funzione sociale della cultura.

Antonio Pellizzari

Estratto dalla relazione di Antonio Pellizzari al 3° Congresso Nazionale dell’Unione Nazionale della cultura popolare, Bari 1955


*Le immagini sono prese dal web

Testi di riferimento:
Cara Arzignano… – Ricerche storico-fotografiche e d’ambiente, un’opera pregevole frutto della collaborazione di più persone,  curata da Passo 8 Cineclub 1985
Antonio Pellizzari – Un uomo solo tra musica e utopia, un’antologia di scritti e di testimonianze, curata dal Comitato Pellizzari 2009

 

 

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