Gli Alpini e le Due Guerre Mondiali

GLI ALPINI

Le truppe alpine sono nate nel 1872. L’idea fu di Giuseppe Perrucchetti, a quel tempo capitano di fanteria, che presentò al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito la proposta di creare unità speciali per difendere i 1540 km di confine alpino del recentemente costituito Regno d’Italia. Il reclutamento doveva avvenire tra gli uomini dalle stesse valli e montagne che si sarebbero dovute difendere.
I vantaggi erano ovvi. Oltre all’abitudine ai rigori della vita di montagna, infatti, questi uomini avrebbero tratto vantaggio da una perfetta conoscenza della zona in cui avrebbero operato.

Il ministro della guerra, generale Cesare Ricotti Magnani, accolse l’idea e furono costituite le prime 15 compagnie, divenute 24 nel 1873 e 36 nel 1878. Gli Alpini adottarono subito il loro caratteristico emblema: una penna nera portata sul cappello, simbolo delle aquile che si annidano sulle cime delle montagne. Il simbolo della penna nera è sopravvissuto fino ad oggi.
La crescita delle truppe alpine proseguì rapidamente: dalle 36 compagnie del 1878, ordinate in 10 battaglioni, si era già arrivati a sei reggimenti nel 1882 e a sette nel 1887; anno in cui furono anche costituite le prime batterie da montagna per fornire alle truppe il necessario supporto d’artiglieria.

IL BATTESIMO DEL FUOCO

Gli Alpini ricevettero il battesimo del fuoco il 1896 a Adua, dove erano presenti con quattro compagnie. Fu lì che il capitano Pietro Cella meritò la prima medaglia d’oro al valor militare del Corpo.
In Africa combatteranno poi ancora tre volte: in Libia nel 1911; durante la conquista dell’Abissinia nel 1935 e contro le forze alleate in Nord-Africa nel 1941.
Nella guerra italo-turca del 1911-12 le truppe alpine svolsero un ruolo importante. Almeno cinque battaglioni vennero, infatti, impiegati a Derna, Assaba e sugli altipiani del Magreb.
Dopo la conquista della Libia, un reggimento degli Alpini fu lasciato nella colonia per presidiare Tripolania. Gli ultimi contingenti furono ritirati nel 1914, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale.

LA PRIMA GUERRA MONDIALE

Durante la Grande Guerra (per l’Italia 1915-1918), gli Alpini furono chiamati per la prima volta a difendere i confini italiani. Per quattro lunghi anni combatterono in un ambiente veramente ostile, a volte solamente per conquistare pochi metri di roccia o per tenere, a costo di gravi perdite, piccole posizioni fra i ghiacciai. Grazie a quelle dure prove, però, e nonostante l’inefficienza degli alti comandi, gli Alpini italiani riuscirono a dimostrare il loro valore, la loro tenacia e la validità del loro estenuante addestramento.
Furono, infatti, le Penne Nere ad ottenere i decisivi sfondamenti sul Monte Grappa, sul Monte Adamello e sul Monte Tonale. Fu la Prima Guerra Mondiale a creare la leggenda di queste truppe scelte, isolate ma imbattibili.

LA GRANDE GUERRA
1915-18

L’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 ad opera dello studente serbo Gavrilo Princip, costato la vita all’arciduca ed erede al trono asburgico, Francesco Ferdinando e a sua moglie Sofia, fu la miccia che fece esplodere la Prima Guerra Mondiale. L’Austria, dopo essersi assicurata l’appoggio dell’impero tedesco, il 28 luglio 1914, dichiarò guerra alla Serbia, scatenando l’inferno in Europa. La Francia, a sua volta, dichiarò guerra all’Austria e alla Germania, e fu presto appoggiata dalla Russia e dall’Inghilterra, in seguito all’occupazione tedesca del Belgio. L’Italia mantenne per circa un anno un atteggiamento di neutralità, schierandosi nell’aprile del 1915 al fianco delle forze dell’Intesa, in cambio del riconoscimento dei diritti su Trentino, Alto Adige, Trieste, Istria e Dalmazia. Il conflitto assunse carattere mondiale con l’entrata in guerra del Giappone e degli Usa, al fianco dell’Intesa. Nei primi anni la guerra vide in forte difficoltà le forze dell’Intesa, con i tedeschi che arrivarono alle porte di Parigi. Ma tra il 1917 e il 1918 gli inglesi, i francesi, gli italiani, gli statunitensi e i loro alleati sbaragliarono la resistenza di austriaci e tedeschi, costringendoli alla capitolazione. Nella Prima Guerra Mondiale persero la vita oltre 37 milioni di persone.

LA GUERRA DI TRINCEA

Nulla ci fu di più tremendo, per i fanti del primo conflitto mondiale, della macabra estetica della guerra di trincea, che obbligò migliaia di giovani, per ben 4 lunghi anni, ad una vita d’inferno, in grado di scoraggiare e distruggere la psiche del più fervente interventista.

Le atroci sofferenze cui fu costretto a soggiacere ciascun soldato possono essere difficilmente comprese, nella loro totalità, da chi non si è trovato a condividere quell’agghiacciante carneficina, quella perfetta macchina di morte che cancellò, per sempre, un’intera generazione.
[…]
Quel macabro sibilo del fischietto degli ufficiali, che ordinava l’assalto alle linee nemiche e che si tramutava in un sinistro suono di morte; a centinaia si lanciavano all’arma bianca, con la baionetta innestata, contro i nemici…

Nel breve spazio fra le due trincee si ammucchiavano una decina di cadaveri, la maggior parte austriaci, caduti in un tentativo di attacco. Impossibile seppellirli. La vicinanza della linea l’impediva. E neppure un armistizio, invocato più volte tra gli scambi d’ingiurie delle sentinelle, non fu mai concluso”.
(Michele Campana, Un anno sul Pasubio).

Le perdite erano spaventose ed inutili:
si continuava a morire a fiumi per la conquista di pochi metri di terreno senza possibilità di scampo e con la consapevolezza di andare al macello, allo sbaraglio, per i folli ordini di comandanti che, lontani dal fronte e dalle sofferenze dei loro uomini, si mostravano completamente indifferenti per quelle continue ed insensate carneficine, impartendo ordini scriteriati.
Andare avanti significava morire, ma anche tornare indietro significava morire; a decine venivano infatti fucilati sommariamente, senza processo, per vigliaccheria o per ammutinamento e, laddove non si individuavano i responsabili, si procedeva alla drammatica strategia della decimazione…

Presso un reggimento di fanteria, avviene un’insurrezione. Si tirano dei colpi di fucile, si grida non vogliamo andare in trincea. Il colonnello ordina un’inchiesta, ma i colpevoli non sono scoperti. Allora comanda che siano estratti a sorte dieci uomini; e siano fucilati. 
(Estratto da Diario di Guerra di Silvio D’Amico)

Autentiche condanne a morte, decretate da ufficiali senza scrupolo, erano le missioni volte al taglio dei reticolati e del filo spinato avversario, con le pinze, attraverso la terra di nessuno; si usciva dalle trincee con la consapevolezza di non tornare mai più e di essere massacrati, di lì a poco, dal fuoco delle mitragliatrici.

Le condizioni igieniche erano poi a dir poco precarie, con i topi e i pidocchi  che divennero ben presto compagni inseparabili di quella sorta di  talpe viventi.
Seppellire i morti era spesso impossibile ed i cadaveri in decomposizione avvelenavano l’aria, rendendola irrespirabile, aggiungendo sofferenza a sofferenza.

“Arrivavano a volte nel meriggio delle folate di vento così pestilenziali che ci mozzavano il respiro. Questo puzzo ammorbante c’impedì sempre di mangiare…
(Un anno sul Pasubio, di Michele Campana).

Breve estratto da: La guerra di trincea di Francesco Ranocchi

LA BATTAGLIA DI CAPORETTO

La grande offensiva sferrata dalle armate austriache e tedesche il 24 ottobre 1917, alle 2 dopo la mezzanotte, dette il via alla dodicesima battaglia dell’Isonzo.

I grandi protagonisti del conflitto: Badoglio, Cadorna, Diaz, il duca d’Aosta, Capello, Caviglia. I «cavalieri di Vittorio Veneto» e i «ragazzi del ’99» ci hanno lasciato silenziosamente.

Nelle battaglie dell’Isonzo e del Piave vi sono, accanto ai piani dello stato maggiore, gli umori e gli animi dei combattenti. Anche se trattati spesso dai loro comandanti con spietata durezza, i soldati hanno forti passioni, odi tenaci e, nei momenti di maggiore entusiasmo, una divorante volontà di vittoria. Per gli italiani l’austriaco è il «nemico ereditario». Per i soldati imperiali, soprattutto austriaci, croati e sloveni, gli italiani sono traditori, felloni, miscredenti.

«Ricordatevi di questo motto: “Niente quiete né riposo fino alla disfatta degli italiani”. Andate con Dio!»
Il tenente generale Alfred Krauss, comandante del I Corpo austriaco, parla alle sue truppe nelle ore che precedono l’inizio della battaglia di Caporetto.

Strappato al contesto della guerra Caporetto è diventato simbolo di tutti i vizi italiani, metafora di tutti i disastri nazionali e chiave di volta della storiografia antirisorgimentale.

Breve estratto da: Il libro: gli italiani furono bravi soldati di Sergio Romano (Corriere della Sera, 29 luglio 2002)

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