Il pensiero produttivo è quella forma di ragionamento che entra in azione ogni volta che ci troviamo di fronte a una situazione problematica, possibile di soluzione ma non immediata, in cui i vecchi schemi già acquisiti non ci possono essere di aiuto, che può creare una nuova conoscenza.
Secondo E. CLAPARÈDE, il pensiero produttivo comprende tre fasi:
• la presa di coscienza del problema
• la scoperta di una soluzione
• la verifica.
Allo studio del pensiero cognitivo nell’adulto hanno contribuito gli studi sull’intelligenza animale, a cui ha dato avvio la classica ricerca di W. KÖHLER, uno dei maggiori rappresentanti della psicologia della percezione, sulle scimmie antropoidi che sono più simili agli uomini (ad esempio i gorilla e gli scimpanzé). Egli, nel suo libro “L’intelligenza delle scimmie antropoidi” ha raccolto delle interessanti osservazioni che costituiscono una base fondamentale.
W. KÖHLER studiò il comportamento degli scimpanzé tra il 1914 e il 1920 nelle isole di Teneriffe dove egli ebbe modo di osservarli a lungo e per comprendere meglio le loro possibilità, ideò una serie di problemi.
Molto famoso è l’esperimento dello scimpanzé di nome Sultano, chiuso in gabbia ed affamato, quindi “motivato” a prendere il cibo che gli viene mostrato. Fuori dalla gabbia c’è una banana, ma non è raggiungibile direttamente. Sultano, all’interno della gabbia ha un bastone a sua disposizione, ma risulta troppo corto. Fuori dalla gabbia e più vicino della banana, c’è un altro bastone più lungo del primo.
Dopo aver dato un’occhiata intorno a sè (nel corso di queste prove vi sono sempre lunghe pause, durante le quali l’animale lascia errare lo sguardo su tutto quanto lo circonda), Sultano riprende improvvisamente il bastone più corto con il quale riesce a impadronirsi del bastone più lungo, attirando a sè finalmente la banana.
Lo scimpanzé durante l’osservazione del campo è così giunto alla soluzione del problema (cioè a prendere il cibo) mediante un’improvvisa riorganizzazione e ristrutturazione del campo psicologico. In questo caso, ad esempio, il bastone cambia significato o ruolo psicologico: da oggetto per giocare a strumento.
Queste osservazioni sono molto importanti perchè da esse è derivata la teoria secondo cui l’atto di pensiero produttivo consiste essenzialmente in una ristrutturazione del campo cognitivo.
M. WERTHEIMER, uno dei fondatori della psicologia della Gestalt, la stessa corrente di pensiero di KÖHLER, ha portato altri interessanti esempi a favore della ristrutturazione nella soluzione dei problemi: infatti tutte le sue situazioni sono tese a sostenere che il pensiero agisce produttivamente, crea una soluzione nuova quando riesce a modificare una struttura, percettiva o cognitiva che sia.
IL PROBLEMA DELL’AREA DEL PARALLELOGRAMMA
Di WERTHEIMER è famoso l’aneddoto di una sua visita ad una scuola dove il maestro stava spiegando che per trovare l’area di un parallelogramma occorre ricondurre la figura a un rettangolo abbassando due perpendicolari dagli angoli superiori verso la base e prolungando poi la base stessa.
Quando i bambini dimostrarono di aver appreso il metodo, WERTHEIMER mostrò la figura diversamente orientata. Alcuni dissero allora di non avere ancora studiata quella figura, altri tentarono di stabilire il metodo appreso senza successo.
Il fatto può essere compreso pensando che la nuova figura è in un rapporto diverso con il quadro di riferimento costituito dal foglio di carta.
WERTHEIMER sottopose allora il problema ad altri bambini che conoscevano le figure rettangolari, ma non ancora questa figura. Qualche soggetto scoprì da solo la soluzione, accorgendosi che togliendo un pezzo a destra e trasportandolo a sinistra si ottiene un rettangolo; una bambina anzi fece l’operazione con le forbici.
In questi casi si può dire che il soggetto giunge alla soluzione non per un processo di apprendimento passivo, ma per una vera e propria attività di pensiero produttivo: la figura viene vista sotto una nuova luce.
Quando il bambino ha compiuto questo passo, ha ristrutturato in tal modo la figura, si può essere certi che non si troverà più in imbarazzo in qualsiasi modo sarà orientato il parallelogramma.
Atteggiamenti tipici nella ricerca di una soluzione a un problema
Secondo DUNKER gli atteggiamenti e i passi tipici che in genere vengono affrontati nel tentativo di giungere alla soluzione di un problema, assumono l’aspetto di una nuova organizzazione percettiva.
L’Autore ritiene che il processo del pensiero creativo consiste in una serie di organizzazioni, fra loro correlate, in modo tale che ciascuna è influenzata dalla precedente, e influenza, a sua volta, quella che segue.
Egli distingue tre grandi livelli di organizzazione che si possono verificare di fronte a un problema:
- formulazione generica (una messa a punto molto generale del problema e una possibile direzione o metodo, sempre generale, idoneo a portare verso la soluzione);
- formulazione funzionale (che precisa e riformula la formulazione generica, mediante la tipica forma «se posso raggiungere questo o quello, il problema è risolto);
- formulazione specifica (che specifica e riformula ulteriormente quella funzionale).
Se una data formulazione specifica risulta non adeguata alla soluzione che si sta cercando, si può ritornare allo stadio precedente della formulazione funzionale per cercarne un’altra specifica; se non si riesce si può risalire sino a quella generale e ricominciare così tutto il processo di pensiero.
Un’esempio è la famosa figura di RUBIN: il disegno può essere visto alternativamente come due profili che si guardano o come un vaso bianco (RUBIN E., 1921), emergendo così ora l’uno ora l’altro delle due parti del campo.
Da tutto ciò appare che l’atteggiamento più idoneo per una presa di coscienza e di formulazione esplicita di un problema, non è quello di attendere che esso si presenti, per così dire, da sè: il procedimento migliore è quello di compiere periodicamente una rassegna delle possibili soluzioni rispetto alle quali esiste in noi un vago senso di insoddisfazione, di confusione e di disagio, portando attivamente ciascuna di tali soluzioni al fuoco dell’attenzione, così da farla emergere da tutto il resto del campo.
Un buon procedimento è quello indicato da DUNKER come analisi del materiale, e migliore ancora è quello che lui chiama analisi dell’obiettivo.
Secondo l’autore, mentre il primo procedimento è più affidato al caso, più simile a un procedimento per prove ed errori, il secondo è più intelligente in quanto presuppone la formulazione di ipotesi indipendentemente dal materiale a disposizione e senza essere condizionati da esso.
In genere accade che tutte e due le strategie siano adottate in momenti successivi, in quanto ciò che caratterizza la soluzione è un particolare valore funzionale di un certo effetto: per lo scimpanzé, ad esempio, il bastone diventa la soluzione quando acquista la funzione di strumento.
Difficoltà specifiche che impediscono il raggiungimento di una soluzione
Queste difficoltà in genere sono legate alla tendenza propria del pensiero umano a ricercare la soluzione di un problema secondo determinati schemi abitudinari, anche se essi non risultano sempre produttivi (impostazione soggettiva).
Molti insigni studiosi hanno messo in luce fenomeni di questo tipo. Per A.S. LUCHINS, ad esempio, l’impostazione soggettiva può consistere nella tendenza ad applicare senza ulteriore riflessione un certo procedimento che è risultato utile alla soluzione di un problema, ad altri problemi analoghi, ma non identici, a quello, anche se il nuovo problema potrebbe essere risolto con un procedimento molto più semplice.
La forza di questa forma di fissità, che può essere chiamata anche abitudine, è espressa pure da questo esempio di SHEERER: i bambini di una scuola debbono qualificare grammaticalmente quanto il maestro dice: Mac Donald – nome proprio; Mac Henry – nome proprio; Mac Mahon – nome proprio; Mac hinery – … i bambini dicono ancora «nome proprio», mentre si tratta di un nome comune «machinery» (macchinario).
Secondo alcuni autori, tra cui lo stesso DUNKER, quando si è utilizzato un oggetto secondo una sua certa proprietà e quindi in una certa funzione, diventa difficile vedere altre proprietà dell’oggetto stesso e quindi altre funzioni che vi sono inerenti. Si parla in questo caso di fissità funzionale di cui un esempio è la bottiglia usata come recipiente, che in una situazione di emergenza può essere utilizzata come candeliere.
Da questa analisi possiamo trarre delle indicazioni utili:
ad esempio come dice DUNKER, di non soffermarsi troppo in certe direzioni se si vede che la soluzione tarda a realizzarsi, il che equivale a dire, guardare il campo da diverse angolazioni;
oppure come dice LUKINS, di analizzare accuratamente ogni situazione per stabilire se essa non presenti qualche elemento che la differenzia da altre consimili, tale da rendere opportuno l’impiego di mezzi diversi da quelli che si erano rilevati utili nelle precedenti analoghe situazioni;
e ancora, moderare la motivazione: se c’è un’implicazione emotiva troppo intensa o una motivazione troppo forte, tralasciare, se possibile, il problema e riprenderlo in un altro momento (più lo scimpanzé era affamato, più disordinati erano i suoi movimenti).
Per concludere, ecco un’ingegnosa situazione problematica posta da BULBROOK: una collana è formata da perle colorate in alternanza regolare (due bianche, una gialla, due bianche, una gialla,…) ma a un certo punto la successione è modificata perchè ci sono due perle in più.
Il compito è quello di ristabilire l’ordine turbato, ma senza disfare o rompere il filo che unisce le perle.
La soluzione al problema è il classico “uovo di Colombo”: con un martelletto si rompono le due perle supplementari e… il gioco è fatto. Abbiamo cioè applicato un’azione conosciuta (rompere) ad una situazione insolita quale è quella di distruggere le perle di una collana, che l’esperienza ci ha sempre portato solo a fare o disfare infilando e sfilando.
In questa analisi ci siamo soprattutto richiamati a processi messi in luce soprattutto dalla teoria della Gestalt, perchè è la teoria che si è rivelata al proposito più produttiva. Altre diverse interpretazioni del pensiero produttivo ci vengono, naturalmente, anche da altre posizioni teoriche come quella associazionistica e quella di PIAGET.
Occorre qui ricordare che, nonostante la grande importanza che ha avuto la psicologia animale nello studio del pensiero produttivo anche umano, nell’uomo i fatti si svolgono in maniera più complessa, in quanto oltre alla possibilità di usare i dati concreti, egli può utilizzare anche i concetti: ad esempio di fronte a qualcosa che non sta nel suo campo prossimo, sa che si tratta di cibo (concetto di cibo) che deve essere raggiunto (concetto del tipo di azione che deve compiere) e che sta lontano (concetto dello spazio).
Mentre l’animale, cioè, agisce in base a ciò che ha a disposizione e che gli si rivela utile in quanto percepito, e percepito perchè presente, l’uomo di fronte al problema può distaccarsi dalla situazione, mettersi al di fuori della presenza reale degli oggetti per cercare la soluzione. Egli, cioè, compie un ragionamento che è reso possibile in quanto egli ha raggiunto il pensiero concettuale. (Sviluppo dell’Intelligenza operatoria)
La formazione del concetto, oltre che con la percezione e con il pensiero, è in stretta relazione anche con il linguaggio.
PENSIERO E PERCEZIONE
Per conoscere le caratteristiche del pensiero, secondo Piaget sono importanti le differenze da lui rilevate tra le attività percettive e cognitive.
Le sue prime osservazioni al proposito, sono partite dall’esame critico di due atteggiamenti fondamentali: tra coloro che da una parte hanno cercato di spiegare la percezione attraverso l’intervento dell’intelligenza, dall’altra quelli che, in senso contrario, hanno cercato di dimostrare che l’intelligenza deriva dalla percezione.
Fra i primi è d’obbligo ricordare HELMOTZ che per dare sostegno alla sua tesi ricorse alle «costanze percettive», che potrebbero a suo parere trovare una spiegazione solo ammettendo l’esistenza di un «ragionamento inconscio»; tra gli altri occupa invece una posizione di rilievo HERING, secondo il quale la conoscenza intellettuale non è sufficiente a modificare una percezione; infatti se la tesi di HELMORTZ fosse vera non si dovrebbero verificare illusioni ottiche o per lo meno l’individuo dovrebbe essere in grado di controllarle.
Due diverse tesi, su cui si basano le due importanti scuole “di Gratz” (con MEINONG e BENUSSI per capostipiti) e “di Berlino” dalla quale si è formata la psicologia della Gestalt.
Psicologia della Gestalt
La psicologia della Gestalt (o Teoria della forma) è una corrente di pensiero sviluppatasi in Germania all’inizio del Novecento, in contrapposizione alla psicologia atomista. Secondo la Teoria della Gestalt, il cui campo di studio privilegiato è la percezione, l’intelligenza si fonderebbe sulle strutture percettive, dalle cui leggi anch’essa è regolata.
L’ATOMISMO
È una concezione filosofica, che vien fatta risalire ai filosofi greci Leucippo e Democrito, secondo cui la materia sensibile è composta di atomi e non è suddivisibile all’infinito.
La parola átomos significa «indivisibile». Per Democrito (460-370 a.C.) era fondamentale sottolineare che gli elementi con cui viene costruita ogni cosa non potevano essere divisi all’infinito in parti sempre più piccole: se così fosse stato, infatti, non si sarebbero potuti utilizzare come mattoni da costruzione. Insomma: se gli atomi avessero continuato a scindersi in parti via via più ridotte, la natura avrebbe cominciato a fluire come una zuppa sempre più liquida.
I mattoni costitutivi della natura dovevano anche essere eterni, perchè niente può essere creato dal niente.
[Gli atomi] Pur essendo assai numerosi e alquanto differenti, sono tutti eterni, immutabili e indivisibili.
Adesso hai capito che cosa ti volevo suggerire parlandoti dei Lego?
Hanno più o meno le stesse caratteristiche degli atomi di cui parlava Democrito, e proprio per questo motivo sono così adatti per costruire. Anzitutto sono indivisibili, variano nella forma e nelle dimensioni, sono solidi e impermeabili. I Lego hanno anche agganci che permettono loro di unirsi per costruire tutte le figure immaginabili e possono essere separati in vista del loro riutilizzo. Ed è proprio questo il motivo per cui i Lego sono così famosi: la loro capacità di essere continuamente riutilizzabili.
Oggi possiamo affermare che la teoria di Democrito sugli atomi era giusta. La natura è veramente «costruita» da atomi che si aggregano e si separano.
Testo tratto da:Il mondo di Sofia di Jostein Gaarder
L’atomismo psichico è una teoria psicologica che sostiene che ogni fenomeno psichico dalla natura complessa come memoria, intelligenza ecc., non abbia una struttura unica ed unitaria ma sia il risultato di un insieme di elementi psichici “atomici”, dalla composizione elementare. Una scuola atomistica viene considerata quella associazionistica che ha a sua volta aspetti di analogia teorica con l’interpretazione neurofisiologica di Ivan Pavlov: la riflessologia, la quale afferma che i processi psichici sono riducibili a riflessi, cioè a processi puramente fisiologici ed elementari. (wikipedia)
La concezione fondamentale della Gestalt è che nella percezione del mondo esterno, noi non cogliamo delle semplici somme di stimoli, i quali si uniscono dando origine agli oggetti, ma percepiamo delle forme, ovvero qualcosa di più e di diverso della semplice somma degli stimoli che le compongono.
di Antonino Bontempo – Luce dinamica e media superfici. L’architettura sotto una nuova luce
Secondo la teoria della forma le “leggi di organizzazione percettiva” sarebbero indipendenti dallo sviluppo e quindi vi sarebbe un’identità di strutture percettive nel bambino e nell’adulto e persino in tutti i vertebrati; non solo, ma anche l’intelligenza sarebbe regolata da queste leggi che si esprimono nelle forme più elementari a livello senso-motorio e percettivo.
Inoltre le proprietà che vengono percepite in un insieme stimolante cambiano non appena si modifica l’insieme stesso. Esisterebbe dunque una instabilità delle nostre percezioni dovuta alle mutazioni del sistema di riferimento in cui sono inseriti gli stimoli che ci hanno colpito.
I gestaltisti consideravano le esperienze mentali come delle totalità che andavano studiate nella loro interezza: il significato dei singoli elementi era dato dalla loro collocazione o dal loro ruolo nell’insieme in cui sono inseriti.
Lo “slogan” di questa scuola psicologica recitava: “Il tutto è più della somma delle singole parti”, le quali di per sé possono esistere indipendentemente dal tutto, mentre è il tutto a perdere il suo significato se considerato a prescindere dalle parti che lo compongono. Questa attenzione alla totalità del reale veniva riscontrata in ogni esperienza percettiva (dal riuscire a leggere un testo vedendolo e interpretandolo come una serie di stimoli neri su sfondo bianco e come un insieme organizzato e non caotico; al riuscire a cogliere una melodia nella sua individualità anche quando veniva eseguita con strumenti diversi: quando cambiava cioè il timbro). Essa portava con sé l’assunzione che la mente non ha una funzione passiva nella percezione, non si limita cioè a ricevere informazioni dagli organi di senso, ma organizza, attivamente, le informazioni ricevute in modo da comporle a formare un “tutto”.
di Antonino Bontempo – Luce dinamica e media superfici. L’architettura sotto una nuova luce
Da questo Piaget colse l’avvio per osservare che si ha qui una prima differenziazione fra pensiero e percezione, in quanto il pensiero non è soggetto a questa instabilità.
Possiamo, infatti, vivere un viaggio verso una meta piacevole come più lungo di un viaggio che sia oggetto di dolore o di preoccupazione (ad esempio, per una madre in attesa della nascita di un figlio il tempo che la separa dalla data presunta del parto le sembrerà molto lento se la gravidanza per lei è fonte di disturbi, sarà molto più breve invece se tutto si svolge regolarmente), ma nonostante ciò noi sappiamo che la distanza rimane la stessa. Può modificare la nostra percezione del tempo, ma non la nostra conoscenza di esso.
Queste differenze, sempre secondo Piaget, possono risalire al fatto che la percezione consiste sempre in un atto di centrazione, cioè gli organi di senso sono orientati verso una sola direzione alla volta; il pensiero è invece libero in quanto possiede la reversibilità, cioè la possibilità di passare rapidamente da un’idea all’altra e di raggruppare le idee in combinazioni sempre nuove.
Le percezioni quindi, soprattutto come attività percettiva, sono necessarie alla formazione del pensiero; la centrazione ci permette di mettere a fuoco un oggetto, quindi di isolarlo dal contesto della situazione stimolante ambientale, ma è la decentrazione che ci permette di andare oltre la sua parvenza per utilizzarlo come mezzo di costruzione intelligente o, se vogliamo, come oggetto di pensiero veramente creativo.
Le teorie della Gestalt si rivelarono altamente innovative, in quanto rintracciarono le basi del comportamento nel modo in cui viene percepita la realtà, anziché per quella che è realmente.
LA MISURA DELL’INTELLIGENZA
La difficoltà di misurare in modo obiettivo l’intelligenza sorge dal fatto stesso che non si sa ancora che cosa si debba in effetti intendere per intelligenza.
Si sono così utilizzati dei mezzi per misurare delle prestazioni intellettive anche senza conoscere che cosa sia l’intelligenza. I primi test sono stati in effetti costruiti più a fini pratici che a fini teorici.
I test nacquero all’inizio del Novecento per iniziativa di un illustre psicologo francese, ALFRED BINET, che nominato direttore di una commissione per la riorganizzazione dell’educazione dei deboli mentali, sentì il bisogno di misure obiettive che gli permettessero di riconoscere i deboli mentali di ogni grado.
Dalla sua collaborazione con una altro psicologo, SIMON, nacquero le prime scale di intelligenza che consistevano in un insieme abbastanza ampio di prove a cui veniva sottoposto il soggetto.
I test di BINET e SIMON, successivamente modificati e aggiornati da TERMAN e da MERRILL, permettevano una rilevazione, sia dell’età mentale del soggetto che del quoziente di intelligenza.
Tenuto conto che queste scale di intelligenza sono state costruite mediante l’osservazione delle prestazioni mentali caratteristiche di ogni età della fase evolutiva, è chiaro che per età mentale (EM) s’intende quella corrispondente alle prove superate da un certo individuo, in rapporto all’età cronologica (EC).
A questo è stata poi aggiunta la rilevazione del quoziente di intelligenza (I.Q. dall’inglese: Intelligence Quotient o dal tedesco: Intelligenz-quotient), che è dato dal rapporto fra età mentale ed età cronologica:
Dal momento che 100 è caratteristico del bambino medio, un IQ inferiore a 100 indicherà una intelligenza sotto la media, un IQ superiore a 100 indicherà un’intelligenza sopra alla media.
Queste valutazioni vanno però accettate con molta precauzione in quanto sono numerosi i fattori (personali e sociali) che potrebbero interferire nel rendimento del soggetto e quindi invalidare i risultati delle prove.
Quali rapporti esistono fra intelligenza, ereditarietà e ambiente? Si hanno numerose ricerche sia a favore dell’importanza dei fattori ereditari, sia a favore di quelli ambientali. Si può pensare che tanto i fattori genetici che quelli ambientali producano effetti sull’intelligenza, anche se rimane difficile distinguere le proporzioni di tali influenze.
Dal momento che questi test erano idonei alla valutazione dell’intelligenza fino ai 14 anni, sono state costruite altre scale valide per l’età adulta. La più conosciuta è quella di WECHSLFR che non dà un’età mentale, ma dà la possibilità di rilevare tre distinti quozienti intellettivi: quello verbale, quello di rendimento pratico e quello totale.
La prova con cubetti è una delle più interessanti della scala di intelligenza WECHSLER. Compito del soggetto è quello di riprodurre un disegno di tipo geometrico, accostando fra di loro le facce diversamente colorate di cubetti, tutti della stessa dimensione, compiendo così una importante opera di analisi e sintesi.
Occorre ricordare che questi test debbono essere applicati da personale specificatamente preparato a questo scopo e che la loro attendibilità o meno è in funzione delle condizioni in cui si è svolta la prova, di quelle emotive del soggetto e delle sue personali esperienze di vita.
Testo di riferimento: Psicologia di Mario Farnè, Giuliana Giovanelli – Signorelli, Milano 1970