GIORGIO GABER
Giorgio Gaberscik, nasce a Milano il giorno 25 gennaio 1939. Adolescente, per curare il braccio sinistro colpito da paralisi, a 15 anni inizia a suonare la chitarra. Dopo aver conseguito il diploma in ragioneria frequenta la facoltà di Economia e Commercio alla Bocconi pagandosi gli studi con i guadagni provenienti dalle serate in cui suona al Santa Tecla, famoso locale milanese. Conoscerà qui Adriano Celentano, Enzo Jannacci e Mogol; quest’ultimo lo invita alla Ricordi per un’audizione: è lo stesso Ricordi a proporgli di incidere un disco.
Comincia una brillante carriera con “Ciao, ti dirò”, scritta con Luigi Tenco. Sono degli anni successivi le indimenticabili “Non arrossire”, “Le nostre serate”, “Le strade di notte”, “Il Riccardo”, “Trani a gogò”, “La ballata del Cerruti”, “Torpedo blu”, “Barbera e champagne”.
Giorgio Gaber e Luigi Tenco in primo piano
Nel 1965 sposa Ombretta Colli. Partecipa inoltre a quattro edizioni del Festival di Sanremo (con “Benzina e cerini”, 1961; “Così felice”, 1964; “Mai mai mai Valentina”, 1966; “E allora dai”, 1967), oltre a condurre vari spettacoli televisivi; nell’edizione 1969 di “Canzonissima” propone “Com’è bella la città”, uno dei primi brani che lasciano intravedere il successivo cambio di passo.
Nello stesso periodo, il Piccolo Teatro di Milano gli offre la possibilità di allestire un recital, “Il signor G”, il primo di una lunga serie di spettacoli musicali portati in teatro che alternando canzoni a monologhi trasportano lo spettatore in una atmosfera che sa di sociale, politica, amore, sofferenza e speranza, il tutto condito con un’ironia tutta particolare, che smuove risate ma anche la coscienza.
«Credo che il pubblico mi riconosca una certa onesta’ intellettuale. Non sono ne’ un filosofo ne’ un politico, ma una persona che si sforza di restituire, sotto forma di spettacolo, le percezioni, gli umori, i segnali che avverte nell’aria»
Far finta di essere sani (1972)
Libertà obbligatoria (1976)
Polli d’allevamento (1978)
Il grigio (1989)
E pensare che c’era il pensiero (1995)
Un’idiozia conquistata a fatica (1998)
sono i suoi lavori più significativi.
Dopo gli album dedicati esclusivamente alla registrazione integrale dei suoi spettacoli, torna al mercato discografico ufficiale con l’album “La mia generazione ha perso” (2001) che include il singolo “Destra-Sinistra“: ironico, con le solite graffianti insinuazioni, è un brano decisamente attuale, visto il periodo pre-elettorale in cui esce.
Scompare il giorno 1 gennaio del 2003, all’età di 63 anni, stroncato da una lunga malattia nella sua villa di Montemagno in Versilia, dove si era recato per trascorrere il Natale accanto alla moglie e alla figlia Dalia.
Il 24 gennaio dello stesso anno uscirà, quasi come un testamento artistico, “Io non mi sento italiano”, l’ultimo lavoro dell’indimenticabile artista.
Tratto da: biografieonline.it
La poetica del Signor G
Col suo teatro-canzone Giorgio Gaber ha attraversato quarant’anni cruciali della storia italiana, in una compenetrazione continua tra pezzi di vita pubblica e privata. Ironico, ruvido, istrionico, nel corso degli anni è stato definito “anarchico”, “vate dei cani sciolti” e perfino “l’Adorno del Giambellino”, ma qualsiasi etichetta risulta insufficiente a riassumerne la personalità.
Gaber si è spento a 63 anni, dopo una lunga malattia. Ritratto di un “maverick” meneghino che non ha mai accettato di farsi accalappiare.
“Vivere, non riesco a vivere ma la mente mi autorizza a credere che una storia mia, positiva o no, è qualcosa che sta dentro la realtà”
Il corto circuito che uno spettacolo di Giorgio Gaber metteva in moto era gesti e canzone, impeto civile e divertimento. Non è semplice spiegarlo. Alla naturale precarietà del nostro difficile tentativo di raccontare la musica, si aggiungono altri livelli, parlando di Gaber. Chi non ha avuto la fortuna di assistere a un recital del Signor Gaberscik difficilmente potrà comprendere il coinvolgimento fisico che il suo teatro-canzone sapeva ingenerare.
I recital che Giorgio portava in giro per i teatri negli anni 70 erano overdose di intelligenza, perché sferzavano come una sega circolare costumi in irrefrenabile mutazione. Ma lo facevano utilizzando insieme la parola e il corpo (oltre che la musica). Quegli spettacoli, sia quelli interamente di Gaber, sia quelli allestiti insieme al sodale di 30 anni Sandro Luporini, sono pietre miliari, verrebbe da dire sociologiche, per la loro capacità di mettere a nudo, con pudore e sottigliezza, la tragicità ordinaria dell’esistenza e del vivere insieme. Quanto sia importante l’aspetto corporeo e fisiologico, nell’arte gaberiana, è indiscutibile. Lui, lì, sul palco, un guitto nero, con quei suoi tentacoli – le braccia, il naso, le gambe; le smorfie, i tic, i ghigni, i sorrisi timidi. Un corpo parlante.
Il canzoniere di Giorgio Gaber attraversa quarant’anni cruciali di storia italiana. Una compenetrazione ineguagliata tra pezzi di vita pubblica e privata, tra l’ansia di chi si è sforzato tutta la vita di fare i conti con la misura della propria inutilità, e la rabbia di un maverick meneghino che non ha mai permesso a nessuno di farsi accalappiare. Lui diceva sempre quello che sentiva vero; lucido, affilato.
[…]
Alternando con straordinaria intensità musica e monologhi, Gaber ci ha insegnato molto: combattuto tra vita e nevrosi, tra benessere e scoramento (ha dedicato anche molte canzoni al suicidio: “Il signor G sul ponte”, “Il suicidio”, “Il dilemma”), cantando l’illogica allegria e il “diritto di vivere il presente”. Mettendo a nudo gli intralci della coerenza e le asperità dell’onestà intellettuale e dell’indipendenza. Cantando la sessualità e il rapporto di coppia con maestria balzacchiana, coniugando le doti del caratterista con l’algebrica puntualità del moralista. Fu un intellettuale senza cattedra.
Lo stupore, l’adesione, la rabbia, il dolore, il desiderio. Sapeva, Giorgio, che “tutto va in rovina” (“L’illogica allegria”, da Pressione bassa); che le cose diventano “risapute e stanche”. Ma il suo non fu nichilismo: fu piuttosto un’iper-consapevolezza. La sua amarezza era divenuta sempre più insanabile. Il suo ultimo album in vita, La mia generazione ha perso, è un testamento di programmi e ideali falliti. Il postumo Io non mi sento italiano annuncia i medesimi toni. Gaber, che fu tra i primi ad allontanarsi dal settarismo delle ideologie, mal si rassegna allo sperpero degli ideali e dell’impegno civile d’un tempo. S’incazza più di sempre, perché non vede “più nessuno che s’incazza”. Tutto è annacquato. “Ma questa è un’astrazione/ È un’idea di chi appartiene/ A una razza in estinzione”. La sua.
(articolo completo)
di Gianluca Veltri
Né destra, né sinistra, per Gaber (“Destra-Sinistra”). Gli era geneticamente inibita l’adesione a un’ideologia, l’appartenenza precostituita (se non nel passato di “Qualcuno era comunista”). Non riusciva a condividere un sentimento di massa. Da varie parti gli viene mossa l’accusa di qualunquismo. Forse Gaber fu qualunquista, se questo significa il rifiuto dell’anestesia, se comporta l’obbligo di tenere il cervello in azione, lo spirito critico vivo, combattendo la stupidità e il conformismo, da qualunque versante provengano. “Oppure sono io che non capisco più un c***o” (“Timide variazioni”, da Polli di allevamento).
Giorgio Gaberscik: un mulino a vento contro l’idiozia.
Abbiamo perso una voce insostituibile. Un pensatore in meno in grado di raccontarci in che mondo (spudorato e assurdo) viviamo.
Tratto da Ondarock
E tu mi vieni a dire io amo, come se l’amore..
E tu mi vieni a dire io muoio, come se la morte..
E tu mi vieni a dire io soffro, come se il dolore..
da “Il Mucchio Selvaggio”, n. 518
È morto Giorgio Gaber
Una vita nel teatro-canzone
di Marco Bracconi
Giorgio Gaber non era un pollo d’allevamento. Aveva scelto di non esserlo all’inizio. Quando il successo era già arrivato. Quando era già una faccia, quella sua bella faccia con il nasone enorme, da festival di Sanremo o da varietà anni Sessanta. Ma non era quello il successo che Giorgio Gaberscik, in arte Gaber, classe 1939, meneghino doc, voleva davvero. Non voleva pailette e lustrini, insomma, ma il palcoscenico. Era il teatro quello che voleva. Per cantare come un attore. E per recitare come un cantante. Per raccontare l’Italia che vedeva, e attraverso l’Italia per raccontare sé stesso.
[…]
Una sorta di testamento, anche se sfogliando gli spartiti e i testi di trent’anni di teatro-canzone, almeno un altra pagina meriterebbe di recitare, insieme al suo autore, l’epitaffio per una vita d’artista vissuta pericolosamente in bilico tra dramma e sarcasmo. “Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri…”, cantava Giorgio Gaber raccontando l’anima e il cuore di una generazione. Quella che ha perso, certo, ma che probabilmente se n’è andata con lo stesso sogno di allora… (articolo completo)
LA MIA GENERAZIONE HA PERSO (2001)
Ebbi il privilegio di vedere dal vivo Giorgio Gaber quando ero ragazzina. La ditta dove lavorava mio padre per l’Epifania di quell’anno, anzichè proiettare il consueto film per ragazzi, ci permise di incontrare questa magnifica persona.
Me ne sono innamorata subito… stavo giusto sotto al palco e scorgevo da vicino tutte le mimiche che Gaber faceva, e parlando con noi ragazzini usava una dolcezza e una cordialità a dir poco disarmante che è ancora vivida nei miei ricordi.
Quando attaccò con “Lo shampoo” non vi dico le nostre risate liberatorie, che raggiunsero l’apice con “Il tic”, per non dire con “l’Odore”! E “Goganga”…
Poi passò anche a pezzi molto orecchiabili ma impegnati, tipo “Com’è bella la città” e “La libertà” e fu molto criticato per i suoi contenuti forti e politici.
Ma ho sempre conservato un grande affetto e una grande ammirazione per questa persona, per il suo coraggio di dire sempre la verità con ironia… contro tutto e tutti.
Leda
L’ATTESA (1981)