Una Lancia limousine nera a sei posti era in sosta in un angolo, il cofano rivolto al Lungotevere.
Sull’uscio del suo appartamento al terzo piano, Matteotti salutava la moglie con un bacio.
Procedeva verso la Lancia in attesa, dall’angolo Matteotti si volse a salutare sua moglie con un cenno della mano.
Amerigo Dumini era al volante, dietro di lui, stravaccati nell’automobile, erano cinque uomini reclutati nella feccia del fascismo: Augusto Malacria, Filippo Panzeri, Amleto Poveromo, Giuseppe Viola e Albino Volpi.
Dei sei, solo Dumini sapeva a menadito i movimenti abituali di Matteotti. Per giorni interi aveva tenacemente sorvegliato il palazzo, sin da quando era ritornato dal suo servizio di agente segreto a Parigi, con la convinzione che il Partito socialista unitario di Matteotti fosse il cervello dei sistematici assassinii di fascisti italiani e, recente, quello del capo della sede fascista a Parigi, Nicola Bonservizi. In base al suo rapporto Giovanni Marinelli, il segretario amministrativo, aveva dato pieni poteri a Dumini e ai suoi compagni «thugs» di rapire Matteotti e di farlo confessare a forza.

Marinelli, e questo Dumini non lo sapeva, aveva ben altre ragioni per volere una confessione di Matteotti. Gli era giunta voce che il deputato fosse in possesso di prove sul fatto che la Sinclair Oil Company del New Jersey stava sborsando centocinquanta milioni di lire per ungere le ruote… alla concessione italiana sul petrolio e che il lucro sarebbe stato suddiviso fra esponenti governativi, personaggi del Viminale e alti gerarchi fascisti. Se fossero riusciti a dimostrare che Matteotti, la probità fatta persona, era connivente in casi di assassinio, avrebbero avuto un’arma potente per trattenerlo dal rendere pubbliche le prove di corruzione a loro carico, qualora avesse tentato di farlo. Il 30 maggio, la frase con cui Mussolini aveva sfogato la sua rabbia per il discorso del deputato socialista, era sembrata a Marinelli il segnale di via libera di cui aveva bisogno.
Tuttavia — avrebbe detto in seguito Dumini — quel giorno dovevano fare soltanto un sondaggio preliminare: non era neppure certo che Matteotti fosse in casa.

Giuseppe Viola, che soffriva di un’ulcera allo stomaco, disse lamentosamente di avere bisogno di una farmacia e Dumini aveva già messo in moto la Lancia. Fu allora che Volpi, accanto a lui, emise un grido soffocato: «Ferma, ferma! Ecco Matteotti».
Il resto fu violenza spontanea, poiché l’odio cieco aveva spazzato via ogni ragionevolezza: per loro quello era l’uomo che aveva formulato il piano per ammazzare i fascisti residenti a Parigi. Fuori di sé, Dumini gracchiò: «Prendete quel porco!»
Dumini per un momento, mentre retrocedeva con la Lancia sul Lungotevere, intravide nello specchietto retrovisore solo un groviglio di corpi in lotta, ma vi fu qualcuno che vide più chiaramente quanto avveniva. Quattro energumeni portavano orizzontalmente un uomo che urlava e lottava: due lo tenevano per il capo, due per i piedi, mentre la Lancia si avvicinava a marcia indietro. Quando la macchina arrivò alla loro altezza e lo sportello fu aperto, i quattro fecero uno sforzo erculeo per gettarvi l’uomo che si dibatteva. La macchina partì stridendo come un proiettile nero. La strada era libera, senza traffico, e nessuno poté capire che il guidatore premeva il clacson insistente e roco per coprire le urla laceranti che venivano dai sedili posteriori, gli uomini pestavano a pugni e maciullavano in una furia selvaggia.
Solo Giuseppe Viola prendeva poca parte alla lotta; l’ulcera lo affliggeva e se ne stava rannicchiato all’indietro sullo strapuntino premendosi le mani sullo stomaco, quando un tacco della scarpa di Matteotti che scalciava lo aveva colpito nei genitali. Accecato dal dolore, si sollevò goffamente e piantò il pugnale dall’alto.
Al volante, Amerigo Dumini non sapeva che cosa stesse accadendo, i colpi battuti con urgenza sul vetro divisorio lo indussero a fermarsi. Scese, aprì lo sportello posteriore e balzò indietro: a trenta centimetri da lui Matteotti, piegato su se stesso, vomitava sangue, l’arteria sinistra della gola era stata recisa.
«Non c’è più niente da fare — disse improvvisamente Malacria — É morto.» Dumini si rese conto di avere Volpi al suo fianco.
«L’em pugnalà cum un pulaster — disse l’omone — ma l’è mort propri ben!»
Lo seppellirono in un boschetto da qualche parte a nord di Roma.

Quel periodo — Mussolini lo avrebbe confessato in seguito — fu tra i peggiori della sua vita. Mussolini si vedeva, inesorabilmente e per sempre, intrappolato nella rete d’intrighi tessuta dai suoi stessi seguaci. Tuttavia si diede da fare per scoprire la verità.
Sotto pressione, Marinelli dovette ammettere che aveva dato a Dumini l’ordine di rapire il deputato, Pochi giorni dopo Marinelli veniva arrestato e si sforzava invano di capire l’ingratitudine di Mussolini per il suo tentativo di salvarlo dalla coalizione socialista.
Durante tutto il mese di giugno, mentre la Polizia, coadiuvata dai cani, rastrellava la campagna, un’ondata di arresti spazzò via come un maremoto tutti gli altri titoli dai giornali.
Furono presi tutti gli assassini. Aldo Finzi, sottosegretario  per gli Affari Interni, per aver mandato Dumini in Francia, fu costretto a dare le dimissioni. Altri due uomini familiari  a Dumini, entrambi implicati nella concessione di petrolio sulla quale Matteotti aveva indagato — Cesare Rossi, capo ufficio Stampa di Mussolini, e il giornalista Filippo Filippelli, che aveva provveduto all’auto, prendendola in affitto — si trovarono anch’essi dietro le sbarre. Il generale Emilio De Bono, quello del pizzo bianco a punta, che era stato uno dei quadrumviri della marcia su Roma, diede le dimissioni da direttore generale della Pubblica Sicurezza.
Il giorno dopo, il deputato repubblicano Eugenio Chiesa, forzando la sua tipica voce bassa e levando la penna come un dito accusatore, lanciò la sfida a Mussolini in piena camera. «Lei non parla perchè è complice!»
Di rimando Mussolini rinunziò al suo portafoglio di ministro degli Interni.

Il Re Vittorio Emanuele III non amava le responsabilità come, d’altronde, non amava molte cose della vita , ma ora la secolare Casa Savoia, che gli premeva più di ogni altra cosa, era in pericolo. L’acido monarca lillipuziano, soprannominato “Sciaboletta”, era diventato leggendario per le cose che non amava. Tanto avaro da vestire uniformi lise e rivoltate persino in cerimonie pubbliche, la sua parsimonia gli aveva permesso di depositare ben un milione e mezzo di sterline alla Hambro’s Bank a Londra. Cresciuto spiritualmente inibito e misantropo a causa della sua statura — da fanciullo per un certo periodo aveva dormito con un peso di ferro ai piedi, nel tentativo di allungarsi — era preso di mira da tutti i caricaturisti europei. Non vedeva di buon occhio i fascisti. Una cosa soprattutto lo rendeva inquieto: di recente, i fascisti avevano dato un segno di omaggio alla monarchia.

La sera stessa, il Duce era l’ospite più in vista al banchetto in onore di Ras Tafari d’Abissinia, nel salotto dei Corazzieri, tappezzato di arazzi, al Quirinale. Quando spiegò il tovagliolo, una busta cadde sulla tovaglia di damasco. Alla luce vivida dei candelabri, Mussolini lesse: «Sei tu l’assassino di Matteotti. Preparati le manette».
Accanto a lui, il re Vittorio Emanuele stava a sua volta leggendo un messaggio. Sbirciò Ras Tafari, ma l’etiope non si era accorto di nulla. Poi passò il foglietto a Mussolini, senza commenti:
«Maestà, l’assassino di Matteotti è seduto accanto a lei. Lo consegni alla giustizia».

L’accusa di complicità nell’assassinio di Matteotti aveva colpito il Duce con la forza di un pugno in faccia. Con assurdo candore, non arrivava ad ammettere che la responsabilità morale del delitto fosse sua, e per sempre finché fosse rimasto in carica.
A Milano furono centinaia coloro che buttarono con disprezzo, nei chiusini della Galleria Vittorio Emanuele, il distintivo fascista, l’ovale bianco rosso e verde soprannominato «la cimice». A Torino e in dozzine di altre città, la Milizia rifiutò di muoversi. La bandiera rossa era abbrunata nei sobborghi di Catania e altrove. Nelle vie di Roma, ritratti di Mussolini a mezzo busto furono, di notte, ritoccati con tinta rossa: gocce di sangue che colavano dalla gola del Duce.

Per la moltitudine dei suoi nemici, quella era un’occasione unica. Eppure nessuno se ne servì. Il 13 giugno centocinquanta deputati dell’opposizione, socialisti, repubblicani, alcuni liberali e membri del Partito Popolare — soltanto i comunisti rimasero al loro posto — uscirono in fila, in silenzio, dalla Camera, in segno di protesta, rifiutando di ritornare ai loro seggi finché i rapitori di Matteotti non fossero stati assicurati alla giustizia. Per il capo dei liberali Giovanni Amendola, e per quello dei socialisti Filippo Turati, la questione era chiara come la luce del sole: se Mussolini non dava le dimissioni di sua spontanea volontà, il Re avrebbe certamente raddrizzato le cose.

Il 16 agosto un poliziotto di ronda trovò una giacca a brandelli, poi identificata per quella di Matteotti, sotto un ponticello vicino alla via Flaminia: lo zelante giovane agente Ovidio Caratelli aveva fiutato qualcosa. Con l’aiuto di Trapani, il cane da caccia di suo padre aveva cominciato a perlustrare il sottobosco chiamato la «Quartarella». D’improvviso Trapani aveva incominciato a raspare freneticamente ai piedi di una quercia. Tempo, calore e insetti avevano fatto l’opera loro, ma il dentista romano Vincenzo Duca identificò senza ombra di incertezza la capsula d’oro che aveva applicato a un dente del Deputato qualche mese prima.

I nemici di Mussolini si tenevano pronti. Il regime fascista era in equilibrio instabile sull’orlo di un abisso chiamato destino, e il Re avrebbe agito di certo.
Ma con loro delusione, il Re si impuntava, come un mulo, sullo Statuto. Il 24 giugno — egli fece osservare — il Senato aveva dato a Mussolini un massiccio voto di fiducia; alla Camera tre ex Primi Ministri — Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando e Antonio Salandra — serie e autorevoli figure di liberali, avevano preferito appoggiare Mussolini piuttosto di collaborare con i socialisti. Un altro implacabile avversario dei socialisti, la regina madre Margherita, aveva di nuovo e chiaramente espresso il suo punto di vista.

La sua ammirazione per Mussolini era così grande, che la regina madre Margherita aveva considerato l’idea di nominarlo esecutore del suo testamento, e aveva convinto il Re a insignirlo del Collare dell’Annunziata. La massima onorificenza cavalleresca, una croce bianco-oro appesa a un cordone verde, che la Casa Savoia aveva concesso solo venti volte nel corso di sei secoli, ora autorizzava il Duce a
rivolgersi al Re come al «cugino».

Con un messaggio personale la Regina madre consigliava Mussolini: «È ridicolo che lei pensi di dare le dimissioni. Ho provveduto a calmare il Re».
La volontà della regina Margherita prevalse sul figlio, come sempre, e il giuramento di fedeltà della Milizia, che adesso era esteso anche al Re, concorse a rassicurarlo. Nel ricevere la prima deputazione di socialisti che presentavano la petizione di dimettere Mussolini, fece il gesto simbolico di coprirsi gli occhi e chiudersi le orecchie: «Sono cieco e sordo, i miei occhi e le mie orecchie sono la Camera e il Senato».

Nonostante i loro appoggi in alto loco, gli estremisti erano diffidenti; a Francesco Giunta, segretario del Partito, un giovane triestino asciutto e atletico, dallo sguardo duro, pareva che Mussolini, nella solitudine di palazzo Chigi, nutrisse ancora “la grande passione, la grande nostalgia, l’ambizione di ritornare con i suoi compagni socialisti”. Roberto Farinacci aveva lo stesso sospetto, per lui la soluzione più radicale era quella di far fuori cinquecento socialisti.
Gli estremisti del Partito, videro confermati i loro timori. Il 20 dicembre Mussolini lasciò cadere, come casualmente, una bomba sotto i piedi dei fascisti più accesi, nell’affollata Camera dei deputati. La legge elettorale che aveva reso facile la vittoria d’aprile alle urne, sarebbe stata emendata, così da aprire la strada a nuove elezioni su base non proporzionale, sul modello di quelle inglesi.
Per i federali, i capi provinciali del Partito, era come l’avvertimento biblico “la fine è vicina”; un governo di coalizione significava veramente la fine delle squadre d’assalto autonome e della norma dell’intimidazione. Non avrebbero più potuto comandare nelle loro zone come fossero feudi personali.

«Il fascismo l’ho creato, l’ho allevato, l’ho fortificato e lo tengo ancora nel mio pugno: sempre!»

Così si vantò Mussolini in un congresso a Padova. Allora un manipolo di uomini risoluti stabilì di mostrargli che aveva torto.
Poco prima di mezzogiorno , il 31 dicembre 1924, sessanta consoli della Milizia, venuti dalla provincia, in camicia nera, marciavano con passo pesante, in un silenzio sinistro, per le vie di Roma. Attraversarono il cortile di Palazzo Chigi senza che nessuno li fermasse. Come un sol uomo salirono le scale marmoree, difilato all’ufficio di Mussolini, al primo piano.

Era un bluff degno del Duce. Infatti, per la maggioranza quei capi, convocati telefonicamente con urgenza da ogni parte d’Italia, erano convinti si trattasse di una normale visita di cerimonia per presentare a Mussolini gli auguri di capodanno. Aveva provveduto l’udinese Aldo Tarabella a far loro quel lavaggio mentale. Soltanto Tarabella e venti suoi colleghi conoscevano il vero scopo di quella spedizione: forzare Benito Mussolini, una volta per tutte, a una dittatura senza remissione.

Spinto da parte Quinto Navarra, trentatré di quegli uomini entrarono nello studio di Mussolini. Coprirono a passi cadenzati, senza essere stati annunziati e senza fiatare, il pavimento lucido di legno intarsiato. Come introduzione, Aldo Tarabella  gli tese di sopra il tavolo, da parte del fiorentino Tullio Tamburini, una lettera che era una sfida. In rabbioso silenzio, Mussolini lesse: stanco di tergiversare, Tamburini annunciava che quel giorno stesso dava inizio a una sequela di punizioni contro i suoi concittadini antifascisti.
E Tarabella: «Siamo stanchi di segnare il passo; le prigioni sono ormai piene di fascisti. Si sta facendo il processo al fascismo e voi non volete assumervi la responsabilità della rivoluzione».
Premuto da tutti i lati, Mussolini annaspò: «Ma infine, che volete? Che cosa pretende lo squadrismo? Oggi occorre normalizzare: nient’altro».
Un coro di scherno accolse le sue parole. Quasi parlasse a se stesso, Mussolini grugnì: «Il cadavere che mi hanno gettato fra i piedi mi impedisce di camminare».

Quando tutti se ne andarono villanamente senza fargli il saluto romano, guardò muto quella falange di sordi che si dirigeva alla porta: la stessa compattezza e risolutezza di quando quegli uomini erano entrati. Come Tarabella aveva annunciato, la porta sbatté alle spalle dell’ultimo uomo e il tonfo si udì chiaro, al di sopra del colpo di cannone che annunciava il mezzogiorno dalla cima del Gianicolo. I due echi si rincorsero dilagando entro il palazzo Chigi come un rintocco funebre.

L’AMMISSIONE DI RESPONSABILITÀ

Nei ventidue mesi trascorsi da quando i ras del Partito avevano fatto irruzione nell’ufficio di palazzo Chigi, coloro che avevano impellenti ragioni per volere la morte di Mussolini erano divenuti migliaia. Egli aveva visto affievolirsi nei fascisti lo slancio di fedeltà e ne aveva tremato.
Così il 3 gennaio del 1925, quando ormai l’intimidazione degli estremisti era così ferma e impellente che non consentiva più di tergiversare, egli cedette alla necessità di assumersi di fronte alla Camera dei deputati, la piena responsabilità dello scandalo Matteotti.

«Se il Fascismo è stato una associazione a delinquere…, io sono il capo»

Con questa affermazione carica di sfida aveva arrogato a sè gli illimitati poteri dittatoriali. Nel gennaio del 1926 Mussolini con un tratto di penna, aveva abolito tutti i partiti politici, salvo quello fascista. Gli assassini di Matteotti erano stati processati nella sonnolenta cittadina di Chieti e condannati a sei anni; la condanna fu ben presto cancellata da una “conveniente” amnistia. Otto nuovi decreti — dal ritiro del passaporto all’esclusione dagli impieghi statali per chi non fosse iscritto al Partito — avevano rapidamente trasformato l’Italia in uno Stato totalitario.

Tutto per lo Stato,
Niente al di fuori dello Stato,
Niente contro lo Stato

fu il loro motto di battaglia.

⇐  Giacomo Matteotti


Testi di riferimento: “Duce! Duce! – Ascesa e caduta di Benito Mussolini” di Richard Collier, U. Mursia & C., 1971

Le immagini sono prese dal web