In fondo, perchè lamentarsi?

Sono passati esattamente dieci anni da quella notte al largo dell’atollo Ranghiroa, quando Tetoèa per primo mi parlò di Tanai, del suo albero del pane, e della sua peregrinazione.
Ho sentito parlare dell’atollo Ranghiroa ascoltando, a Papeete, un notiziario sugli esperimenti nucleari francesi alle Tuamotù.

Uno speaker francese racconta che gli abitanti degli atolli delle Tuamotù orientali, tutt’attorno a Mururoa (dove le esplosioni nucleari sperimentali erano giunte, in quella data, a più di quaranta), si trovano bene “nelle loro nuove località di residenza”.
«Stanno bene», dice la voce anonima di radio Papeete, raccontandoci di come vivono in altre isole, in villaggi di altri atolli o in nuovi quartieri alla periferia di Papeete. Il cronista parla di “trapianto sociale” e ci offre la cronaca diretta della visita di un ammiraglio alle comunità emigrate per lasciare posto agli “esperimenti” (per la “scienza” e per il “futuro”…).
Ascolto, e intanto ricordo quando nel ’61 vedemmo il cielo notturno illuminarsi nel chiarore di un’esplosione nucleare stratosferica americana sopra le isole Christmas (e noi, che dormivamo in una capanna a quattromila miglia di distanza, fummo svegliati da quella inattesa aurora artificiale); mi ricordo i racconti di pesci contaminati e la paura di acque non più amiche. E ricordo (quando sono iniziati gli “esperimenti” nel Pacifico francese) l’angoscia degli uomini delle Tuamotù nell’apprendere che l’estremo lembo orientale del loro arcipelago era stato scelto come “poligono atomico” con epicentro nell’atollo di Mururoa.

…mostruose deformazioni naturali di un atollo sconvolto, vere e proprie immagini da fantascienza; spiagge butterate di una sorta di escrescenze viscide e tondeggianti, sfere irregolari nate dal fondersi delle sabbie nella violenza dell’esplosione. Un Oceano come nemmeno le apocalissi delle antiche leggende polinesiane più angosciose riuscirono mai a evocare. Immagini sulle quali si sovrappongono volti di giovani, di vecchi, di donne, di bambini: sorridenti o tristi, sono i “profughi” trasportati dalle zone “chiuse” a Papeete; finalmente sono riuscito a incontrarli, oltre Tiperui, quartiere periferico della città. Profughi non scontenti del loro nuovo stato; ed è proprio questo loro “esser contenti” l’aspetto umanamente più angoscioso della loro condizione; tutti, appena li ho interrogati, hanno detto d’esser felici di trovarsi là, a duemilatrecento chilometri dai loro atolli; in fondo, perchè lamentarsi?

Tratto da Fratello Oceano di Folco Quilici

 

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