Da quelle colonne maestose,
da quella teoria di architetture diverse
e pur armoniose che può parere
un “campionario” di stili e di epoche,
la storia parlava al cuore e alla mente
del ragazzo stralunato e pur consapevole
che i secoli non lo separavano da quelle pietre.
Al contrario, erano esse il segno
di una continuità della storia che avvolge
in un solo abbraccio gli uomini
di ogni epoca e civiltà.
«Davanti a queste ville patrizie il ragazzo Silvio Negro si era tante volte fermato, nei primi del Novecento si marciava ancora così nelle campagne, con il passo sonoro sui ciottoli» — si portavano le “sgàlmare” ossia gli zoccoli di legno, e sovente la strada bianca si scuriva, perchè la terra battuta diventava fango — «Aveva visto queste ville dai loro cancelli pomposi di antichi ferri battuti».
Così scriveva Orio Vergani sul “Corriere della Sera” l’indomani della scomparsa del collega e amico.
Così tante ne aveva ammirate, chè sono esse disseminate nel territorio veneto, simulacri oggigiorno di un fasto e di un costume perduti.
È del periodo dell’adolescenza il ricordo, collocabile nel momento in cui Silvio dispone di una bicicletta donatagli dal padre, del giorno in cui si trovò a passare davanti alla villa da Porto-Barbaran di Montorso Vicentino.
Amiamo pensare che sia stata con tutta probabilità la prima villa in assoluto, di fronte alla quale egli si sia soffermato. E magari più d’una volta egli vi sia tornato con la sua bicicletta per meglio osservarla.
Fermo su un lato della strada, a bocca aperta e con il cuore in tumulto era davanti alla villa addossata alla collina, sapeva soltanto quel poco di latino ch’è sufficiente per leggere il “Deus nobis haec otia fecit” (Dio ci ha donato questa pace) che spicca a grandi lettere sul frontone.
Silvio contava allora dodici anni, quando papà Raffaele aveva acquistato la tenuta di Arso, nel 1909, dal conte Antonio Porto, proprietario per l’appunto della villa di Montorso. Si può presumere che i genitori affidassero al ragazzo un fagottello di qualche primizia da offrire al signor conte. Chè, anche se si trovavano costretti a vendere, i siori continuavano allora a conservare il primato nella scala sociale ed erano oggetto di riverenza.
…e non seppe spiegarsi affatto come quella nobilissima reggia fosse ora ridotta a stalla, fienile e legnaia, soprattutto non riusciva a rassegnarsene.
Non vi si sarebbe rassegnato, come possiamo constatare dalla citazione che troviamo nell’articolo “Monumenti che non rivedremo più”, scritto trentasei anni più tardi.
«Dell’opulenza di un tempo, quando il mondo era piccolo e tutta la vita diversa, non le rimangono (all’Italia) che i canti dei poeti, gli scudi anacronistici delle vecchie carte geografiche, e quadri, statue, palazzi, e questi ultimi sono un po’ tutti come la gran villa palladiana ridotta da tempo a stalla invernale di armenti ma che porta scritto ancora a lettere romane sul frontone “Deus nobis haec otia fecit”.
È una immagine, codesta, rimasta scolpita a caratteri indelebili nella memoria ma anche nell’anima di Silvio Negro: quasi la sigla della di lui predestinazione a presiedere l’Ente Ville Venete (trasformato nel 1978 in Istituto Regionale per le Ville Venete). Incarico che egli ricevette nell’autunno 1958, su segnalazione del conte e senatore Giustino di Valmarana, vecchio amico dei tempi del liceo.
«Un’altra grana», ebbe a esclamare Negro nell’apprendere la nomina, la quale non poteva essere attribuita peraltro a persona più adatta: a un veneto sin nel profondo delle viscere, a uno che le Ville Venete le aveva da sempre considerate quasi un problema suo personale. E che fosse davvero una “grana”, egli se ne sarebbe dovuto accorgere suo malgrado sin troppo presto. Le lentezze della pubblica amministrazione, i lacci della prassi burocratica lo infastidivano e lo mandavano su tutte le furie. A nulla servirono le sue ripetute minacce di dimissioni, anche perchè troppo breve fu quel tratto di dodici mesi appena che lo vide immerso in tanta impresa e del quale la morte repentina segnò il limite.
Tutto quel che sul piano formale non potè fare, Negro dimostrò di volerlo attuare con una eccezionale disponibilità personale: in quel brevissimo anno egli visitò qualcosa come trecento dimore gentilizie nel vicentino, nel veronese, nel trevigiano, nelle provincie di Venezia e di Udine. Raccoglie dati, prende appunti, abbozza ipotesi di soluzioni che potrebbero favorire il restauro di alcune ville, sovrattutto il loro riutilizzo in sintonia con la mutata situazione socioeconomica.
Quella del riutilizzo (e non del loro restauro fine a se stesso) è una intuizione in anticipo sui tempi che a Negro va riconosciuta e allunga il già cospicuo elenco dei suoi meriti. Troviamo nei suoi appunti alcuni fra i più bei nomi dell’establishment veneto: i Marzotto, gli Emo Capodilista, i Papafava, i Valmarana.
Al suo entusiasmo per aver scoperto che una di queste ville apparteneva alla casata degli Zen, subentrò tosto l’ira di fronte alla constatazione che il conte Zen ci teneva una fabbrica di formaggio. E Villa Cordellina divenuta stabilimento bacologico, dove si allevavano i bachi da seta. Voleva convincere Giovanni Gronchi ad acquistarne una e ad aggiungere a quello gentilizio il proprio nome. Ad ascoltare una siffatta profferta, Gronchi si era assai divertito.
Testo estratto, e in parte rielaborato, dal libro “Silvio Negro” di Guido Guarda – Edizioni Nuovo Progetto 1990
Villa da Porto-Barbaran
È uno dei più estesi complessi di villa veneta, soprattutto se la si considera completa dell’ala ovest, la cui esistenza è stata comprovata nel corso degli studi effettuati. L’originario insediamento risale al XV sec., con ampliamenti del XVI, XVII e XVIII sec.
La villa oggi è costituita dal corpo padronale, che ospita nella parte centrale un salone, con a fronte la scalea, il pronao e due vani scale. Nell’ala destra quattro sale per ognuno dei due piani. La loggia est è costituita da un portico, sul quale prospettano tre sale, poste sopra le cantine, che occupano tutto il piano terreno.
Ancora a est, una lunga barchessa congloba i resti della residenza più antica e di una torre colombara.
Edifici e spazi esterni, un tempo giardini, frutteti, aie, sono circondati da un muro, per una superficie di un ettaro e mezzo, nel quale sono disposti altri manufatti ormai manomessi e irriconoscibili.
Il restauro è stato preceduto da un approfondito lavoro di analisi diretta sul manufatto e sulle pertinenze e da uno studio delle fonti, relative alla villa e allo sviluppo del suo contesto nei secoli. Da tale studio è scaturito il progetto di restauro conservativo, volto a un riuso rispettoso della morfologia, delle tecnologie e dei materiali originari, visti nei loro aspetti di pregio e di documenti storici “viventi” di una civiltà complessa e raffinata.
Villa Almerico-Capra
detta ‘La Rotonda’ ~ Vicenza
Villa PISANI
Stra ~ Venezia