Il mondo dei contadini era regolato sui cicli della luna e delle stagioni. I più dotti avevano frequentato la terza elementare, ma conoscevano tutto quanto era necessario alla vita dei campi, della famiglia, della comunità. E bastava. Un empirismo gnomico, mai intralciato da astrazioni o da sottigliezze intellettualistiche, formava il loro sostrato culturale, la quotidiana bussola operativa. I giornali erano sostituiti dalle ciàcole del postino e del barbiere; i libri, dai proverbi secolari appresi dal babbo, che li aveva appresi dal nonno.
Fidarsi del prossimo? Carta canta e villan dorme. Come difendere il bilancio familiare? Moderare le voglie, spendere meno di quel che si raccoglie. Rapporti con la giustizia? Né par torto né par rasón, mai farte metar in presón. Ti chiedono un prestito? Ci impresta, perde el mànego e anca la sesta (cesto). Fallisci in un’impresa superiore alle tue forze? L’è come pissar contro vento e no voler bagnarse le braghe. Perché i vecchi finiscono al ricovero? Parché un pare mantien sette fioi e sete fioi no mantien un pare. Una buona moglie? Che la piasa, la tasa, la staga in casa. La moglie del vecchio professore è fuggita con un ragazzo? Omo studioso, magro moroso.
Ogni comportamento umano, ogni evento naturale era incasellato nell’immaginoso archivio della sapienza contadina. L’ostico concetto del solstizio d’inverno, lo spostarsi del sole dal tropico del capricorno verso l’equatore, era sintetizzato nella felice metafora da cortile: a Nadàl, un passo de gal, vale a dire che a Natale il giorno si allungava d’un passo di gallo, paragonando il sole al re del pollaio. A sant’Antonio (17 gennaio), un passo de demonio. Per le previsioni del tempo consultavano il «Pojana Maggiore», lunario meteoprofetico fissato con due puntine da disegno alla porta della stalla; oppure guardavano il cielo al tramonto: rosso de sera, bel tempo se spera; rosso de mattina, la piova l’è visina. Previsioni per il raccolto: aqua e sol, pan fin che se vol.
Per gli assetati di vino novello: a san Martin (11 novembre) ogni mosto l’è vin. Se lo si desidera frizzante, imbottigliarlo a Pasqua, a luna crescente. I contadini nutrivano la più rispettosa considerazione per la luna senza domandarsi, come il Leopardi, che cosa stesse a fare lassù, in cielo. Lo sapevano benissimo, senz’essere poeti: l’attrazione della luna rimescola il vino nelle botti e non c’è affatto da stupirsi, visto che il pallido astro possiede la forza d’alzare le maree.
Per la festa del santo patrono, dalla campagna tutti correvano in paese, alla fiera annuale dei cavalli, per ammirarli e, se il raccolto era stato buono, comprarne uno. Sauri, bai, morelli, solenni da tiro, agili da barroccino, andalusi, maremmani, ungheresi, irlandesi, purosangue e figli di N.N. allineavano nel foro boario natiche frementi, verniciate di sudore. Menando pacche affettuose sui garretti, i proprietari ne esaltavano le doti e, per convincere i dubbiosi, sottoponevano le bestie alla prova del «carro frenato», sotto uno schioccare di fruste che laureava i Maciste del regno equino. Poi il mediatore, cappello sulle ventitré, stuzzicadenti in bocca, afferrata con una mano la destra di colui che fingeva di non voler comprare e con l’altra la destra di colui che fingeva di non voler vendere, batteva l’una sull’altra, e pronunciando la frase rituale: picia (batti) man, che la bestia l’é tua, consacrava la compravendita grazie a quel gesto, più vincolante d’un rogito notarile.
Tutt’intorno esalava l’afrore dei cavalli che scalciavano sul letame di giornata, frustando con la coda i tafani, sbronzi di sole. A cento metri, sotto il palazzo del municipio, grugniva il mercato dei maiali, tondi lattonzoli colore rosa sottoveste; e siccome a quei tempi molti uffici pubblici restavano aperti anche il mattino dei giorni festivi, il segretario comunale, infastidito dallo strepito, aveva esposto il cartello: «Si prega di far stare zitti i maiali, per non disturbare quelli di sopra».
Nelle grandi feste s’indossava l’abito nuovo, o quello rivoltato che sarebbe passato per nuovo, se non fosse stato sbugiardato dalle asole occhieggianti su entrambi i risvolti della giacca, e dal taschino passato a destra. Terminata la funzione religiosa, ragazzi e ragazze correvano a casa a cambiarsi e l’«abito della festa» veniva riposto nell’armadio, fino alla occasione successiva. Stringendo i ferri sotto le ascelle, le mamme confezionavano maglie di lana di pecora, grezza e scura, che tenevano caldo più che per naturale emanazione calorica, per l’irritazione che causavano alla pelle con le loro carezze di carta vetrata. Pungendo, la lana obbligava le persone a grattarsi, e grattandosi si scaldavano.
Per la biancheria, bucato trimestrale, detto lissia. Bollita l’acqua nel paiolo, la si versava nel mastello zeppo di lenzuoli, federe, tovaglie, asciugamani, il tutto ricoperto da un telo colmo di cenere, prelevata dal focolare (con la cenere, detersivo prodotto in casa, si lavavano anche piatti e bicchieri). Dopo aver imbevuto la biancheria dei princìpi attivi della cenere, l’acqua usciva da un foro in basso, torbida, color senape e prendeva il nome di lissiasso (ranno), utilissimo per pulire le teglie di rame, che il giorno seguente brillavano sulla cappa del camino, come medaglie sul petto d’un decorato.
I più dormivano sul paión, un saccone di tela riempito di scartossi, foglie secche di granturco, che al rigirarsi del dormiente mandavano un maliardo rumore di patatine fritte. Si andava a letto presto, per risparmiare l’olio della lucerna e, d’inverno, la legna del riscaldamento. Le braci, raccolte nello scaldino, sgelavano le lenzuola alle coppie che, andando a letto (el paradiso dei poareti) poco dopo il tramonto, incrementavano i battesimi. Se per la Chiesa era peccato non rispettare il precetto «crescete e moltiplicatevi», per quella gente abituata a non sprecare nulla era un vero peccato non far seguire al primogenito una raffica di fratellini che ne utilizzassero, in scala, gli abiti smessi.
Quella possiamo veramente chiamarla civiltà dei consumi, nel senso che i vestiti venivano consumati fino all’ultima fibra di stoffa, le scarpe fino all’ultima molecola di pelle, la bottiglia dell’olio fino all’ultima goccia, il pane fino all’ultima briciola. In cucina vigeva la legge di Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Probabilmente il grande scienziato ebbe questa intuizione vedendo una madre di famiglia numerosa fare le polpette. La domenica i figli dei benestanti erano autorizzati ad acquistare una o due paste, oppure un sorbetto dal gelataio che spingeva un carrettino bianco, smaltato, a forma di gondola o di cigno, gridando, poeta insidioso:
Piangete, bambini
che la mamma vi dà i soldini
per comprarvi i gelatini.
Gli altri ripiegavano sul castagnaccio, sui gialli lupini bolliti, sui semi di zucca arrostiti nel fornello a carbonella, gestito all’ombra del monumento ai caduti da una vecchietta che, per dieci centesimi, riempiva un portauova e versava il contenuto fumante nella tasca del ragazzino. «Roba da far risuscitare i morti» diceva. Poi, accortasi della gaffe, chiedeva mentalmente scusa agli eroi del Carso e dell’Ortigara, scolpiti in ordine alfabetico sul basamento di marmo.
I ricchi facevano risuolare le scarpe al primo buco; gli altri raccomandavano al ciabattino di coprirlo con un francobollo di cuoio, e quando pure questo si bucava, lo si copriva con un altro, concentrico e di diametro maggiore. Custoditi come gioielli di famiglia, gli abiti duravano una vita e anche più, perchè, morto il babbo, il suo cappotto si reincarnava sulle spalle del figlio e poi del nipote. Al traguardo finale di queste resurrezioni del paltò aspettava, paziente, il mendicante, che riceveva l’indumento quando, intarsiato di toppe e rabescato di rammendi, aveva oramai perduto ogni forma umana.
L’attuale civiltà dei consumi fu preceduta da una lunga civiltà delle riparazioni. Ai pantaloni lisi sul sedere si prolungava la vita trapiantandovi un pezzo della stessa stoffa («osservate i nostri tasselli invisibili» diceva il cartello d’una rammendatrice). Gli ombrelli rotti erano consegnati ad un ambulante, oriundo quasi sempre dal lago Maggiore, che girava per le vie annunciando: «Ombrelàiooo». Che voleva essere un grido, e pareva un lamento, sufficiente tuttavia perché le massaie uscissero di casa con sottobraccio fasci di ombrelli sconquassati.
[..]
Al grido «caregàro, el caregàrooo» le donne rovesciavano fuori dalla porta sedie spagliate, poltroncine sventrate, seggiolini sinistrati.
[..]
L’arrotino arrivava spingendo un trabiccolo simile ad una carriola. Fermato l’arnese in mezzo alla piazza, la ruota si trasformava in una motrice che, azionata da un pedale, faceva girare la mola. [..] Da mola deriva moleta, nome dialettale dell’arrotino. «El moleta, done, è rivà el moleta» ripeteva l’ambulante con accento trentino, provenendo questi artigiani quasi tutti dalla val Rendena (a Pinzolo gli hanno dedicato un monumento).
Trentini anche i paroloti, che applicavano ai paioli bucati lucenti tasselli di rame. Dalle stesse valli scendevano gli spazzacamini, mestiere che richiedeva il physique du rôle: statura piccola, corporatura minuta, indispensabile per penetrare nella canna fumaria a raschiare la crosta di fuliggine, talvolta con l’aiuto d’una fascina di rovi che, infilata nel camino, ne grattava le pareti.
Lo spazzacamino indossava un berretto di feltro, a cono, calato fin sugli occhi; nero il berretto, nero il viso, non sapevi dove finisse il primo e cominciasse il secondo. Sembrava la propria foto in negativo. Agli spazzacamini, che raramente superavano i vent’anni, la voce popolare attribuiva singolari capacità erotiche. Come ai negri (per via del colore?). Si favoleggiava di uno che, in una giornata, aveva segnato al suo attivo quattro camini e altrettante padrone di casa. Una di queste non gli fece nemmeno fare il bagno, lo trascinò direttamente dalla canna fumaria alla camera da letto. Di qui il ritornello salace:
Non dubiti, o signora,
se il suo camino è stretto,
son bravo giovinetto
so fare il mio mestier.
Terminate le sue prestazioni, lo spazzacamino se ne va per il suo destino:
E dopo nove mesi
è nato un bel bambino,
assomigliava tutto
allo spazzacamino.
Tratto dal libro di Cesare Marchi: Quando eravamo povera gente
Quando eravamo povera gente
di Cesare Marchi
Rizzoli Libri
Settima edizione, 1988
L’Italia tribolata dei nostri nonni raccontata agli ignari e benestanti nipoti.
Quando si andava a prendere l’acqua al pozzo (sperando, se era inverno, che non fosse gelata); quando i contadini erano tanti e gli operai pochissimi; quando (se tutto andava bene) si mangiava la carne solo di domenica; quando i ragazzi si dicevano «Ti amo» arrossendo; quando un viaggio di trenta chilometri era un’avventura che poi si raccontava agli amici; quando il sabato ci si metteva in camicia nera e si doveva inneggiare al «duce che ci conduce»; quando la parsimonia era considerata una virtù; quando, per sembrare eleganti, si rivoltavano le giacche e si rammendavano i calzini; quando…
Quando la maggior parte dell’Italia era fatta di povera gente, quando per scrivere una lettera d’amore si ricorreva ai consigli del Segretario galante, quando si doveva partire per la guerra volontari per forza.
In questo nuovo libro Cesare Marchi ci accompagna alla scoperta (anzi alla riscoperta) di un’Italia che non era ancora una delle sette nazioni più industrializzate dell’Occidente, di un’Italia dove la povertà non era una colpa e tanto meno una vergogna, di un’Italia dove fiorivano cento mestieri ormai scomparsi, di un’Italia dove ci si commuoveva ascoltando le strofette ingenue di una canzonetta.
Un libro dolce e nello stesso tempo sapido e malizioso, giocato sul filo del ricordo, della nostalgia ma anche dell’ironia, che ci guida in un sorridente viaggio in un’Italia che – forse – è stata dimenticata troppo presto; un libro scritto con finissimo humour, garbata satira e un pizzico di rimpianto; un libro fatto di tante piccole cose ormai scomparse e dimenticate che all’improvviso diventano affascinanti, dolcissime e sorprendenti, perchè quando Cesare Marchi racconta…
Cesare Marchi è nato nel 1922 a Villafranca di Verona, si è laureato in lettere a Padova e ha insegnato nelle scuole medie. Presso Rizzoli ha pubblicato Boccaccio, L’Aretino, Giovanni dalle Bande Nere, Dante, Impariamo l’italiano, Caro Montanelli, Siamo tutti latinisti, Grandi peccatori Grandi cattedrali (Premio Bancarella 1988).
Presso altro editore: Il delatore, confidenze d’una malalingua. Ha vinto i premi Campione, Casentino, Dodici Apostoli e il Dattero d’oro al salone dell’umorismo di Bordighera. Sue opere sono state tradotte in vari paesi.
Tratto dalla sovraccoperta del libro
Caro lettore,
appartengo a una generazione singolare: le nonne tiravano l’acqua al pozzo e lavavano i panni al fiume; le figlie, premendo il bottone d’una lavatrice e spedendo una cartolina postale, hanno trasformato il bucato in un gioco televisivo, dotato di ricchi premi. I padri, con chitarra e mandolino, facevano la serenata sotto la luna; i figli vi sono saliti, con l’Apollo 11. Spinti dalla fame, i nonni emigravano con il passaporto rosso; i nipoti, spinti dalla noia, vanno alle Maldive con volo charter. A trent’anni le contadine, stremate dalla fatica, ne dimostravano cinquanta; oggi le cinquantenni metropolitane, restaurate dalla chirurgia estetica, ne dimostrano trenta.
Poche generazioni hanno assistito, come la mia, a così incalzanti e radicali mutazioni di vita e di costume: la dittatura e la democrazia, la monarchia e la repubblica, la guerra e la pace, poi la guerra fredda e la pace calda, l’autarchia e la Comunità Europea, il colonialismo e il terzomondismo, le braghe rotte e l’abito firmato, la campagna demografica e l’aborto, le brigate rosse e le brigate nere, il delitto d’onore e la pillola, le ghette e le Timberland, i soldi nel materasso e i fondi d’investimento, il pallottoliere e il computer, il calesse e il jet, la conversazione al caminetto e i petardi allo stadio, il terrorismo e il perdonismo, la tombola e i videogiochi, i ladri di polli e la lancia termica, i morti di spagnola e il trapianto del cuore, gli ultimi cavalleggeri e i primi bombardieri atomici.
Generazione-ponte fra l’Ottocento, terminato con gli spari di Sarajevo scambiati dalla Belle Epoque per tappi di champagne, e il Duemila, cominciato una trentina di anni fa, con la rivoluzione antropologica della Tv. Quella che gli specialisti chiamano accelerazione storica, lo stiparsi di tanti e contrastanti eventi in sì breve arco di tempo, ci ha invecchiati precocemente. Siamo i posteri di noi stessi. Le abitudini d’oggi non sono più quelle di ieri. Modelli di comportamento, parametri morali mutano con la rapidità con cui ci cambiamo d’abito. Abbiamo commemorato gli anni Cinquanta, poi i Sessanta come se fossero le guerre puniche, l’evoluzione tecnologica accelera la corsa del tempo in progressione geometrica. I revival, questo ricorrente singhiozzo della memoria, si succedono a intervalli sempre più corti, come i rimbalzi d’una palla sul terreno. Nel 1989 commemoreremo il 1988?
A forza di ripetere che il futuro è già cominciato, perfino la parola moderno ci sembra vecchiotta, tant’è vero che abbiamo coniato il post-moderno. Cosicché non ci resta il tempo per lanciare uno sguardo dal ponte, considerare le nostre origini, rivisitare quel passato che, anche se è prossimo, ci sembra lontanissimo, come quando si guarda un paesaggio col binocolo rovesciato. Se lo giriamo dalla parte giusta, riscopriamo molte cose scomparse: il carrettino dei gelati a forma di barchetta; l’organino di Barberia, concerto stradale a manovella; i pantaloni alla zuava, la giacca con la martingala, il berretto alla marinara con scritto Regia Nave Duilio, le scarpe ortopediche con la suola di sughero, la camicia da notte per l’uomo, la sottoveste e il busto per la donna, d’estate la zanzariera sul letto, d’inverno lo scaldino per sgelare le lenzuola, le Massime eterne sul comodino, il vaso da notte dentro.
Sono scomparsi la matita copiativa, il calamaio, la penna col pennino che, incrociando le punte, spruzzava d’inchiostro il foglio; i geloni sulle mani, ulcerate per carenza di vitamine; i guanti di lana con i diti a metà, chiamati manopole, che consentivano agli infreddoliti scolari d’impugnare la penna; il tabarro, l’uovo di legno infilato nella calza da rammendare, su cui la donna batteva con forza il ditale per livellare il rattoppo.
Altri reperti archeologici della memoria: la pallina di vetro che sigillava la gazzosa, l’acqua di cedro per gli svenimenti, il rosolio delle zie difeso da tracannamenti clandestini mediante un segno di matita (ma l’astuto nipote vi aggiungeva altrettanta acqua); le fasce avvolte a spirale attorno al neonato, simile a un gigantesco baco da seta; il salvadanaio, cipollone di terracotta, solcato da una fessura orizzontale per le monete da cinque, dieci, venti, cinquanta centesimi, una lira, due lire (il cavour), cinque lire (lo scudo d’argento, detto anche aquilotto). Chi possedeva dieci lire, correva in banca ad aprire un conto.
Sono scomparse le rosse stufe Becchi a tre piani, il matterello per tirare la sfoglia, il secchio di rame per attingere al pozzo
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Questo, sia ben chiaro, non è un catalogo della nostalgia, lacrime versate sul «buon tempo antico». Chi rimpiange la vecchia civiltà contadina, non l’ha mai conosciuta da vicino. È un arcade, che nell’attico tripli servizi, filodiffusione e idromassaggio, sogna le vaghe pastorelle montanine, i prati smeraldini, gli argentei ruscelli. Letteratura. È destino che ogni generazione calunni se stessa, rimpianga le precedenti, per poi essere rivalutata dalle successive. È quasi una legge fisica.
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Era l’alba del secolo che spuntava su una diffusa povertà, sopportata con diffusa rassegnazione, il cibo-base lombardo-veneto era l’universale polenta, il pane compariva sulla tavola soltanto la domenica. Grazie al doppio lavoro, mio padre tutte le mattine acquistava venti centesimi di pane fresco, che i fratellini festeggiavano come se fosse una saint-honoré. Siccome il nonno materno aveva una bottega di generi alimentari, quello fra mio padre e mia madre possiamo chiamarlo un matrimonio fra il pane e il companatico.
In prima elementare ebbi tre maestre (c’era anche allora il precariato) e una non aveva le idee molto chiare sull’elettricità. Diceva: «Quando andate in città, non pestate le rotaie del tram se è appena passato, potrebbe esservi rimasta attaccata un po’ di corrente».
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La nostra famiglia, equidistante dall’opulenza e dall’indigenza, viveva sul filo d’un nitido decoro piccolo borghese. Erano gli anni della lira mantenuta forzosamente a «quota novanta» rispetto alla sterlina, e quando un brutto giorno il governo diminuì d’autorità gli stipendi, mio padre disse a mia madre: «Dal prossimo mese, invece di novecento lire, ne prenderò settecento». Ma ricuperò la differenza andando in giro in bicicletta, terminato il lavoro d’ufficio, a fare l’assicuratore.
La tassa di frequenza al ginnasio inferiore (l’odierna scuola media) si aggirava sulle duecento lire. Chi otteneva la media dell’otto ne era esente, con la media del sette si pagava la metà. Mi fu promesso che se avessi avuto l’esonero totale mi sarei, con quel denaro, comperato la bicicletta: una Volsit, sottomarca della Legnano, la casa di Bartali. Lo confesso: studiavo per amore della bicicletta, non del sapere. Ma che soddisfazione. Compiango i ragazzi dell’odierna scuola media, obbligatorio e gratuito diplomificio; loro non sanno che gioia procuri costruirsi mentalmente, giorno dopo giorno, voto dopo voto, pezzo dopo pezzo, il sognato velocipede azzeccando gli orali e gli scritti: otto in italiano (ecco la ruota anteriore), otto in latino (ruota posteriore), sette in storia (carter e catena), nove in geografia (manubrio), otto in francese (sellino), otto in matematica (freni e campanello).
Caro lettore, questo non è un romanzo né un saggio di sociologia, ma il viaggio nella memoria d’un giornalista
[..]
Questo è un libro «lungo», nel senso che ho scritto le prime pagine alcuni decenni or sono. Precisamente, nell’aprile del 1945, sfollato sulle colline del Garda e costretto in casa, ostaggio dei tedeschi…
Cesare Marchi