René Magritte (1898-1967) artista di origine belga, è considerato insieme a Paul Delvaux tra i maggiori pittori del surrealismo belga.
Nato a Lessines in Belgio nel 1898, in giovane età si trasferì più volte con la famiglia, e a 14 anni dovette affrontare la morte di sua madre, la quale da tempo soffriva di disturbi mentali e finì per gettarsi nel fiume Sambre a Châtelet, una cittadina belga in cui vivevano dal 1910.
Nel 1918 si recò a Bruxelles, dove studiò all’Accademia delle Belle Arti. Si sposò quindi nel 1923 con Georgette Berger, una ragazza conosciuta durante l’adolescenza ma che poi perse di vista, fino a incontrarla nuovamente nel primo dopoguerra. Ella divenne la sua principale musa ispiratrice, e restarono insieme per tutta la vita.
Magritte iniziò a lavorare come grafico esplorando gli stili in voga, come il cubismo e il futurismo, ma ad avvicinarlo alla pittura fu la scoperta dei dipinti di Giorgio de Chirico, principale esponente della pittura metafisica, che lo colpirono profondamente per il suo “nuovo modo di vedere”.
Nel 1925 avvicinandosi al gruppo di surrealisti di Bruxelles cominciò a sperimentare la pittura surrealista. Nel contempo lavorava con uno dei due fratelli in uno studio pubblicitario, dove affinò l’abilità di rendere un’immagine efficace dal punto di vista comunicativo.
Nel 1926 entrò in contatto con André Breton, leader del Movimento surrealista. Nel 1927 si tenne la sua prima mostra personale a Bruxelles, che non andò bene. Demoralizzato, nello stesso anno decise con la moglie di trasferirsi nei pressi di Parigi, e diventò amico di Breton. Magritte in quel momento è uno dei principali esponenti della pittura surrealista.
Ma lo stile parigino non gli si addiceva proprio. Egli era un uomo sobrio che non amava vestirsi in maniera eccentrica come molti surrealisti, uno su tutti Salvador Dalí, usava invece portare la bombetta come molti della borghesia di quel tempo. Così la coppia tre anni dopo, nel 1930 ritornò a Bruxelles dove Magritte trascorse il periodo più lungo della sua vita, producendo moltissime opere e intensificando il rapporto con il gruppo surrealista locale.
Nel 1940 temendo l’occupazione tedesca si trasferì con la moglie a Carcassonne in Francia, e qui sperimentò un nuovo stile di pittura detto alla Renoir, con colori chiari anche brillanti, lussureggianti paesaggi con soggetti in cui mescolava fantasia, piacere e sensualità. Un periodo che durò sino al 1947.
Seguì poi il cosiddetto periodo vache che durò pochi mesi, in cui le sue tele sono poco rifinite, con colori vivaci, lo stile è molto diverso, confuso, caricaturale, stravagante e a volte pornografico. Parve voler richiamarsi al movimento artistico d’avanguardia dei Fauves, che ebbe breve vita (1905-1908 circa) ma che produsse un nuovo linguaggio espressivo dando più importanza alla forma, al colore, all’immediatezza, anzichè al significato dell’opera come avveniva nell’arte accademica. Uno stile per così dire eccessivo, a cui per paradosso rispose il cubismo, del quale Pablo Picasso è uno dei massimi esponenti, che riportò un certo ordine nelle cose, ponendo un freno all’assoluta libertà del colore.
Queste opere di Magritte furono esposte a Parigi nel 1948 e provocarono una certa indignazione nel mondo dell’arte.
Riprese quindi a sviluppare un suo stile personale. Negli ultimi anni di vita Magritte tornò a dedicarsi maggiormente alla pubblicità, le sue immagini apparirono su riviste, in TV, un po’ dappertutto fino ai giorni nostri.
Morì a Bruxelles nel 1967, metre Georgette vivrà fino al 1986.
A differenza di molti altri esponenti del surrealismo, Magritte non è eccessivamente ermetico, egli mantiene nella sua arte una dimensione comunicativa, il cui messaggio è reso comprensibile ma interpretabile, abilità acquisita con la sua esperienza di grafico pubblicitario.
Fin dai suoi primi lavori compaiono oggetti ambigui, inanimati, strani, li assembla su uno spazio anonimo o usuale, li combina in modo stravagante giocando con le dimensioni e le proporzioni. L’insieme appare così insolito, assurdo, enigmatico che può suscitare angoscia o inquietudine nello spettatore.
“Gli amanti”, una delle sue opere più celebri datata 1928 oggi conservata al MoMA di New York, mostra un uomo e una donna che si baciano i cui volti non si vedono essendo coperti da un drappo bianco. Due persone che condividono un’intimità ma il loro volto è celato e appaiono come due estranei, oppure la loro intesa è tale a livello spirituale che il pensiero esime dall’aspetto fisico?
La sua pittura è chiara, omogenea, egli rappresenta con “distacco emotivo” degli oggetti ordinari ma fuori dal contesto famigliare, cosicchè la nostra attenzione non sia distratta, ma rivolta tutta all’oggetto.
“Il tradimento delle immagini”, dipinto realizzato tra il 1928-29 e conservato nel Los Angeles County Museum of Art contrappone l’immagine di una pipa con la scritta: “Questa non è una pipa”. Suggerisce Magritte: «Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi non è una pipa!»
La parola ‘pipa’ è un segno convenzionale associato a un oggetto, perchè attraverso il linguaggio possiamo capirci (potrebbe benissimo essere un’altra parola); ma l’oggetto pipa è molto di più: può essere un regalo, un ricordo, un desiderio, può indurre piacere o al contrario fastidio…
«Tutte le cose visibili nascondono altre cose invisibili»
Il concetto è espresso anche in un’opera precedente: “La Chiave dei Sogni” del 1927, dove tutto è il contrario di tutto. Il dipinto rappresenta una specie di sillabario con una serie di oggetti, e sotto ogni immagine c’è una parola che pare non aver alcuna relazione con l’oggetto raffigurato.
Nel mondo razionale, logico «uno studioso al microscopio vede molto più di noi. Ma c’è un momento, un punto, in cui anch’egli deve fermarsi. Ebbene, è a quel punto che per me comincia la poesia».
E si apre una porta attraversando la quale si può ‘vedere’, immaginare, liberare il pensiero.
«Già da molto tempo esisteva il desiderio di vedere l’uomo in aria, e si è pensato all’aeroplano. Si voleva vedere l’uomo dove non si era abituati».
Un mondo onirico in cui un paio di scarpe terminano con le dita di un piede in “Le Modèle rouge” del 1934, o la moltitudine di uomini sospesi in aria in “Golconda”, un dipinto del 1953 conservato nella Menil Collection di Houston (Texas), un museo progettato dall’architetto italiano Renzo Piano.
Golconda è una città dell’India celebre sin dall’antichità per la ricchezza dei suoi giacimenti di diamanti, divenuta sinonimo di incredibile ricchezza presso gli europei, per poi ridursi a una città in rovina.
A questi uomini con cappotto e bombetta, così tutti uguali, anonimi borghesi pare manchi una visione. Curioso che anche Magritte stesso vestisse in quel modo…
Estrapolando le parole da un’intervista (Terre des Arts, 1967): «…credo che il pittore concepisca ogni cosa come il frutto di un’illuminazione che gli disvela il ‘mistero’ delle cose, il mistero del mondo, attraverso la cosa contemplata».
«Non si può parlare del mistero, possiamo solo esserne affascinati».
Più che a ‘scavare’ per comprendere il significato, il mistero che si cela nelle cose, Magritte ci spinge a farci delle domande, ci invita ad andare oltre la semplice percezione dei sensi, oltre gli schemi abitudinari che ci siamo costruiti, e ci spinge verso il mondo delle idee, dei sogni, della libertà di pensiero, ci spinge ad essere creativi (il pensiero produttivo).
Per questo egli sovverte l’ordine delle cose, scompone e ricompone, oppone o sovrappone, e i suoi dipinti diventano sempre più dei veri e propri rebus.
Con il suo dipinto “La condizione umana”, Magritte ci mostra un altro dipinto posto su un cavalletto davanti a una finestra. Ciò che la tela mostra è il paesaggio reale che sta al di là della finestra e che noi non possiamo vedere, o è l’idea del paesaggio che il pittore ha voluto rappresentare?
L’espediente del dipinto nel dipinto ci invita a fare una riflessione sul sottile confine tra realtà e rappresentazione.
Ciò che uno vede e pensa, può essere molto diverso da ciò che vede e pensa un altro.
Ci introduce insomma in un mondo regolato da nuove leggi dove è possibile immaginare e rendere possibile l’impossibile. Non a caso quella di Magritte è definita “la pittura del pensiero”.
Magritte «non avvicina il reale per interpretarlo, né per ritrarlo, ma per mostrarne il mistero indefinibile. Intenzione del suo lavoro è alludere al tutto come mistero e non definirlo».
Nel dipinto “La riproduzione vietata” del 1937, ora conservato al museo Boymans di Rotterdam, si vede un uomo di spalle che è davanti a uno specchio, ma non appare il suo volto, lo specchio lo riflette a sua volta di spalle. È come se quell’uomo, più che a guardare a se stesso, stesse rivolto verso il mondo, verso ciò che accade fuori da sè.
Fa pensare anche a quell’antica credenza popolare molto radicata in alcune culture secondo cui: ciò che riflette la propria immagine, si dice, “rubi l’anima”, la imprigioni perdendo qualcosa di sè. Ed è un qualcosa di molto grave. Un tema di cui scrive anche Oscar Wilde in Il ritratto di Dorian Gray.
Del resto però lo specchio aiuta il bambino a prendere coscienza di sè nel suo processo di identificazione. Guardarsi allo specchio può farci comprendere se siamo in armonia con noi stessi. Gli altri possono essere lo specchio di come appariamo, di come ci lasciamo conoscere o dell’immagine che vogliamo dare.
Nell’opera “La riproduzione vietata” ad essere riflesso in modo normale è il libro che si trova sulla mensola. Si tratta del romanzo “Le avventure di Gordon Pym” di Edgar Allan Poe nella traduzione di Charles Baudelaire.
Edgar Allan Poe è uno degli autori preferiti del pittore, da un suo racconto Magritte prende ispirazione per il titolo di un altro suo quadro: “Il dominio di Arnheim”.
Quali che siano i mezzi con i quali il surrealismo perseguirà nel futuro «il recupero totale della nostra forza psichica», che resta sempre un obiettivo affascinante, quali che siano le linee direttrici in funzione delle quali si articolerà il suo pensiero in evoluzione, ormai da tempo si è visto con questo movimento prender forma una splendida visione del mondo… una visione sensibile e intuitiva:
«Tutto ciò che amo, tutto ciò che penso e sento mi orienta verso una particolare filosofia dell’immanenza secondo la quale la surrealtà sarebbe contenuta nella realtà stessa, e non sarebbe nè superiore nè esterna ad essa».
Enciclopedia della Psicologia diretta da Denis Huisman – Trento Procaccianti Editore, 1973