Nel cuor della notte una viva fiammella

Quando ai padri toccava di andare in Comune a dare il nome dei nati – e forse per l’emozione e la contentezza, o magari perchè in paese gli amici li tiravan dentro dalle porte o all’osteria a festeggiare – succedeva che delle volte non si ricordassero quello concordato con la moglie, o, delle volte, che i nomi non fossero propriamente quelli dei santi in calendario; allora l’addetto all’anagrafe li consigliava di chiamarli col nome del santo del giorno o semplicemente Santo o Sante e Santa o Santina – così non scontentando neanche don Genesio il giorno del battesimo.

Comunque, per le contrade dei Faldi e dei monti Castellari, che di nome facevano Santo ce n’erano alquanti. Santo era il poveretto che andava a carità e forse dagli anni della guerra si era meritato, come secondo nome, quello di Baùco* nelle contrade alte, e quello di Socòlo* nelle contrade basse, perchè si lasciava passare avanti da tutti gli altri poveretti che di quei tempi grami facevano la fila davanti alle porte delle case.
Per la Beppa e la sua famiglia era Santo dei Radi, che da quella contrada veniva.

La cartolina di Sante (il primo figlio di Siobèlo), a Bruno fa tornare in mente i Natali passati, che era Festa grande e stavano contenti tutti insieme…; specialmente quelli di quando erano piccoli e in tutte le case facevano il presepio e capitava che fuori c’era sempre la neve; con le sante messe più lunghe ma così solenni, che duravano tre volte tanto quelle delle altre Feste, perchè in quel giorno si dovevano mettere insieme tre Messe: quella in Nocte, quella in Aurora e quella in Die.

Verso sera, cantori e canterine insieme con don Fabiano e i musicanti che suonano comodi sul carro tirato dai bò – uno col violino, uno con la chitarra, uno con la fisarmonica e un altro col clarino – si parte con la Stella: è bella grande, tutta inargentata, che gira su alta in cima a un palo, illuminata al centro dalla luce di una lampadina che va a batteria. Ogni anno è sempre quella.
Cosa cantiamo?!
La Stella!

È usanza sotto le Feste di Natale di andarla a cantare, di sera – ma si torna a casa a notte fonda – per le contrade nelle corti, per le strade dei paesi, fino alla piazza. Si canta la Stella e la gente che viene sulle porte e si affaccia alle finestre ci offre qualche venti, trenta, ma anche cinquanta o cento lire, biscotti, caramelle; delle rare volte, è capitato, cioccolata calda o vin brulè – con quelli siamo tutti contenti, che ci scaldiamo tanto il fiato che la voce.

«Cantare la venuta del Redentore è un atto di fede semplice in devota e allegra compagnia», dice don Fabiano all’osteria per invogliare quei due, tre, intenti nel gioco delle carte o in quello proibito della morra.
Lui ci prova, ma di quelli già conosce dagli anni passati la risposta: che di andare in giro per le strade, di camminare per ore a fiaccarsi le gambe e a battere i denti per il freddo dietro alla Stella, non sono pramòsi*; ma tutti noialtri, di andarla a cantare non vediamo l’ora: c’è che sotto Natale tutti ci aspettano a noi della Stella.

A Bruno torna in mente il suo ultimo Natale in Alvese, che lui aveva nove anni e c’era la neve alta; ma quelli di Ceralto – una squadretta – attraverso il passo di Santa Caterina erano riusciti ad aprirsi la strada lo stesso. Erano arrivati in corte con la stella in cima a un palo, con un lumetto dietro che la schiarava. E avevano cantato una Stella che pareva tutta una canzone allegra che dopo ai Rossi e di qua della valle non aveva mai più sentito:

nel cuor della notte
una viva fiammella
risplende la Stella
del tempo che fu...

*Baùco (sciocco)
*Socòlo (testa vuota)
*pramòsi (bramosi)

Estratto da: Caro Papà Caro Figlio
a cura di Bepi de Marzi e Cecilia Petrosino, Nuova Grafotecnica 2012

 

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