Abbiamo bisogno di essere percepiti, come scrive Hillman, citando a sua volta Berkeley: “Esse est percepi”. Vivere è essere percepiti. Esistiamo in quanto possiamo essere visti e riconosciuti dagli altri. Quindi, scriviamo, in fondo, per essere letti.
Proprio di James Hillman è il libro che ha aperto la stagione delle mie letture estive, quella più libera, più proficua e godibile: Il codice dell’anima di Hillman, per l’appunto.
La tesi del libro, ridotta a una pillola, è la seguente: ognuno di noi nasce con una vocazione. Ciascuno di noi ha un daimon (ricordate Socrate?) che segna il suo destino individuale. Il destino è iscritto nella ghianda. Perché veniamo al mondo con una controfigura magica o ultraterrena.
È la teoria della ghianda (la ghianda che già contiene in sé tutto il futuro albero così come noi conteniamo fin dalla nascita il nostro destino), secondo la quale la parte invisibile del mondo ha un’importanza cruciale nelle nostre vite e perciò dobbiamo imparare a riconoscerla e coltivarla. Il mondo – secondo Hillman – non è riducibile alle certezze razionali ma ha un lato invisibile che può essere riconosciuto solo attraverso l’intuizione e può essere osservato soltanto da chi è attento e ben disposto a cogliere il lato nascosto delle cose.
Il filone, com’è evidente, è quello junhiano, dell’anziano Jung che confessava nella sua autobiografia (altro magnifico libro da non perdere!) che le sole vicende della sua vita degne di nota erano state le irruzioni del mondo imperituro in questo mondo transeunte. E che in Anima e morte chiariva:
L’essenza della psiche si estende in tenebre che sono molto al di là delle nostre categorie intellettuali. L’anima contiene non meno enigmi di quanti ne abbia l’universo con le sue galassie, di fronte al cui sublime aspetto soltanto uno spirito privo di fantasia può non riconoscere la propria insufficienza.
Secondo le dichiarate intenzioni dell’autore, la teoria della ghianda serve a rimettere ordine, con un’immagine coerente, i pezzi della vita; a rintracciare un senso e una trama di fondo nell’unicità di ogni vita. A far sì che l’esistenza di ciascuno di noi non sia un numero casuale o il frutto dell’accidente, ma il risultato di una chiamata del destino. Chiamata che è presente in maniera irresistibile in alcune personalità che rivelano fin da bambini la loro vocazione, ma che affiora in maniera imprevedibile in ciascuno di noi. Che però spesso non sappiamo cogliere certi indizi.
La teoria della ghianda ci aiuta anche a operare una ricostruzione a ritroso della nostra vita alla ricerca delle tracce della nostra vocazione, che nell’inconsapevolezza del vivere quotidiano non siamo stati capaci di riconoscere. “Il leggere la vita a ritroso ci permette – scrive Hillman – di vedere come certe ossessioni precoci siano l’abbozzo di comportamenti attuali”.
Il libro rivela anche l’infondatezza di quella che Hillman chiama la “superstizione parentale”, il pregiudizio di ritenere che l’ambiente familiare e i genitori abbiano un’influenza decisiva sul nostro destino e sulla vocazione individuale. È tutt’al più il daimon a scegliere il luogo e i genitori con cui discendere sulla terra e in questo senso essi possono essere (per contrasto o per armonia) i fautori del nostro destino.
La grandezza del libro sta tutta nella capacità dell’autore di rivalutare ciascuna esistenza umana in nome di un’unicità che i calcoli statistici e la classificazione diagnostica tendono a cancellare. Da qui il desiderio di riabilitare la mente poetica e la capacità immaginativa delle persone, “perché – come scrive Hillman – c’è bisogno di uno sguardo nuovo per ripristinare il senso e l’importanza della propria vita”.
È questo l’appello di Hillman perché si ricostruisca la capacità dell’uomo di percepire questo invisibile, contro l’incapacità della scienza di ascoltare la voce dell’immaginazione. Perché ogni vita, in nome di un destino superiore, riconquisti la sua dignità e il valore del suo esistere.
Il libro è la testimonianza dello sforzo di uscire dalla camera mortuaria della spiegazione meramente scientifica del mondo. Ancora le parole illuminanti di Hillman:
Considerando la nostra persona come un esempio di vocazione, il nostro destino come manifestazione di un “daimon”, guardando la nostra vita con la sensibilità immaginativa con la quale leggeremmo un romanzo, forse placheremo l’ansia, la febbre, l’assillo di risalire a tutti i costi alle cause.
Il libro è insomma un invito a placare la nostra insaziabile sete di indagine in nome di una conoscenza intuitiva che arresta questa ruminazione, quasi automatica, della mente, in nome di qualcos’altro che è divenuto invisibile all’occhio umano accecato dalla civiltà e che non può essere contenuto entro i confini né della natura né della cultura.
Il limite del libro sembrerebbe consistere, per certi versi, nell’apparente arbitrarietà della sua teoria. Ma misurare le tesi di Hillman col passo della ragione sarebbe come voler giudicare un notturno di Chopin o la bellezza di un tramonto con la forza bruta della ragione.
di Arriano di Nicomedia (nickname)
14 luglio 2012
Fonte: filosofiadelbenessere.com