Sul far della sera, la ricevette in consegna il padrone del frutteto, l’arnia. Era fatta a somiglianza di una casetta di legno, col tetto movibile a due spioventi, rivestito di lamiera e molto sporgente nella parte anteriore, proprio come i tetti delle costruzioni di montagna, per aver la facciata protetta dalla neve e dagli acquazzoni. Ma era una casetta senza finestre e con una porticina più larga che alta, sbarrata da una specie di pettine a denti radi fatto di chiodini piantati su un’asticciola di legno.

Il contadino si avvicinò con cautela, era la prima volta che ospitava nel suo podere una famiglia di api. Sapeva che queste bestiole, se vengono irritate, pungono, ma ignorava perchè e con che cosa esse lo facessero. Seguì in silenzio tutte le operazioni del trasporto e del collocamento a dimora su una specie di predellino rialzato, sorpreso di non vedere nessun’ape uscire dall’arnia come se questa fosse vuota.  Sfido io! Gli apicultori avevano inchiodato una striscia di rete metallica fitta sulla porticina, per impedire alle api di uscire durante il trasporto; guai se ciò fosse avvenuto durante il viaggio, chiusi com’erano i due trasportatori nel veicolo, insieme all’arnia! Essi tolsero la reticella soltanto all’ultimo momento.
La casetta era ormai definitivamente sistemata sul suo sostegno, alta una trentina di centimetri dal livello del terreno, avendo intorno un prato che incominciava ad avere qualche ciuffetto d’erba rinverdita e, più lontano, schierati in file bene allineate, alberi da frutto d’ogni specie, con le gemme un po’ gonfie, ma ancora chiuse nell’involucro che le protegge dal freddo e dall’umidità.
— Ecco! — esclamò l’apicultore provetto — Ora qui non siete più solo, avete una famiglia che vi farà buona compagnia. Abbiatene cura.
Il contadino sorrise tanto per fare un gesto di compiacenza, perchè non si sentiva per nulla toccato dalla consolazione di quella compagnia.
— E poi avrete il miele per casa vostra. Vi piace il miele?
— Lo assaggerò l’inverno prossimo, quando avrò bisogno di scacciare la tosse — rispose il contadino.
— Avrete anche più frutta dai vostri alberi, per merito di queste bestiole — aggiunse l’altro apicultore.
— Staremo a vedere — ribattè l’uomo, ma era incredulo e non avrebbe mutato opinione sino alla prova dei fatti.
— Ora vi salutiamo — concluse l’apicultore. — Con vostro comodo ci manderete l’importo di tutto: arnia, famiglia di api, trasporto. Sono quindicimila lire. Tutte le volte che avrete bisogno di me, fatemi una telefonata e verrò a vedere come lavorano le vostre api. Vi faccio una raccomandazione: quando l’erba crescerà, tenetela sempre falciata davanti la porticina, perchè non ostacoli il movimento delle api.
Rimasto solo Gaspare, così si chiamava il contadino, mantenendosi a una certa distanza dalla porticina, si chiese: «Saranno vive o morte quelle trentamila api che stanno là dentro?»
Stette un po’ a guardare e tosto s’accorse che già c’era un certo movimento in prossimità della porticina: una, due, tre api s’affacciarono timidamente. Pareva che tremassero, che fossero malsicure sulle loro zampine, incerte sul da farsi.
«Mi sembran di poca voglia» mormorò tra sè il contadino. «Chissà che cosa vogliono fare!»
Invece quelle api sapevano benissimo quale era lo scopo che volevano raggiungere rimanendo così, appena affacciate alla porticina, davanti a una specie di davanzale lungo quanto la casetta e unito ad essa: erano incaricate di dare un’occhiata intorno per organizzare i viaggi delle operaie addette alla cerca del nutrimento. Non era necessario che tutte uscissero per vedere; le componenti il piccolo gruppo avrebbero informato, con i modi che sono loro abituali, tutte le altre su quanto esse dovevano sapere per iniziare i voli di orientamento nella campagna circostante.
Calò a poco a poco la sera. Un velo nebbioso, umido e freddo si stese sulla campagna. Le api si ritirarono nell’interno.
Il contadino andò nella stalla a mungere le mucche, col pensiero a quella famiglia di trentamila esseri vivi radunati in quella casetta, e quando venne notte, prima di salire nella sua camera, sentì il bisogno di volgersi in direzione dell’arnia, ormai avvolta nell’oscurità, e di mormorare un «buona notte anche a voi, api».

IL RISVEGLIO

Un paio di giorni dopo, di buon mattino, quando l’erba era ancora bagnata dalla rugiada della notte, Gaspare andò a fare una visitina alle sue ospiti. Dormivano o almeno pareva che dormissero, perchè sulla porticina non si scorgeva alcun movimento.
Il contadino non sapeva che le api escono dall’arnia soltanto in piena luce. Si fermò a guardare. Improvvisamente un fascio di raggi del sole che stava levandosi dietro i monti raggiunse la casetta avvolgendola di luce e di tepore. Era un tepore assai lieve, quello che può dare il sole all’inizio della primavera nelle ore mattutine.
Ma le api lo avvertirono subito: una uscì sul terrazzino e sfrecciò via volando; era un punto bruno dorato che si perdette subito nel pulviscolo di luce.
— Oh! — esclamò il contadino sorpreso — una se n’è andata. Ritornerà?
Stette un po’ ad aspettare, ma l’ape era già lontana.
— Dove sarà ora? Se tutte le mattine quando viene il sole una prende il volo, il miele per la tosse dovrò comprarmelo, anzichè averlo da queste api.
La minuscola volatrice aveva una commissione da fare: andare alla ricerca di una fonte di nutrimento. La fonte sta nei fiori che danno alle api polline e nettare. Nel prato di Gaspare non si vedeva che qualche ciuffo d’erba novella, ma più lontano erano sicuramente spuntati i primi fiori primaverili seminascosti tra il fogliame secco a’ piè delle siepi e tra i cespugli sui pendii tiepidi di sole.

Chi aveva avvertito l’ape di questa fioritura? Era da poco tempo arrivata insieme con la sua famiglia in quel luogo, eppure non aveva alcuna incertezza nell’andare verso i fiori. Chi la guidava?
La volatrice mattutina era guidata dal suo odorato. La sensibilità al profumo dei fiori l’ape l’ha nelle antenne. Come tutti gli insetti anche l’ape non ha naso, ma i due organi dei quali è provvista sono di tale perfezione da sostituirlo a meraviglia, perchè, all’occorenza, con le sue antenne non soltanto avverte e distingue gli odori, bensì anche le forme dell’oggetto che tocca. Ad esempio, per le api l’odore di una pallottolina della loro cera è diverso da quello della medesima cera quando è divenuta cella esagonale.
La fine sensibilità agli odori non è però di tutte le api: non l’hanno le api maschi, non la possiede la regina e nemmeno le operaie, finchè non hanno incarichi per cui sia necessario esserne dotati. È una facoltà che si sviluppa in relazione ai lavori cui devono provvedere.
È assolutamente necessaria alle api che vanno, come questa nostra, partita di buon mattino, alla cerca delle fonti di nutrimento, per poter saopere anche alla distanza di due chilometri, ove essa si trovi. Insomma si può dire che le api vedono a grande distanza e dove non arriva l’occhio, arriva l’odorato.
L’ape fuggita via non ritornava, mentre altre si affacciavano alla porticina. Gaspare, stanco di attendere il suo ritorno, si allontanò borbottando.
Ma proprio mentre lui stava andandosene verso la stalla, la fuggitiva ritornò planando con sicurezza e disinvoltura sul terrazzino dell’arnia. Le compagne in attesa le si fecero subito incontro.
«Seguitemi», pareva dir loro «ho una cosa importante da farvi sapere». Entrarono tutte nell’arnia dove il grosso della famiglia stava ordinandosi nei grattacieli.
Che cosa sono i grattacieli delle api?
Sono le costruzioni di cera che le api fanno all’interno dell’arnia: una serie di camerette dette anche celle o alveoli, di forma esagonale in doppio strato, opposte per la base: tremilasettecentocinquanta su ogni faccia della costruzione, che è rettangolare. Ciascun grattacielo misura cinque decimetri quadrati, e di questi nell’interno dell’arnia se ne possono contare undici o dodici, collocati all’esatta distanza di un centimetro l’uno dall’altro, il che consente alle api di muoversi attorno a ciascuno lavorando schiena contro schiena senza disturbarsi a vicenda.
Ma il vero nome di ciascuna di queste costruzioni verticali e parallele fra loro è “favo”; però, facendo un confronto fra le dimensioni dell’ape e del favo con quelle corrispondenti dell’uomo e della sua casa, non sembra errato chiamarle anche grattacieli.
Nelle singole stanzette le api nascono e crescono, ma tutto ciò avviene nel giro di appena tre settimane; una volta raggiunto il massimo sviluppo possibile, la giovane ape deve abbandonare la sua cella che non occuperà mai più per tutta la sua esistenza.
Non tutte le celle sono camerette delle api, molte servono per il deposito del miele o del polline occorrente ad alimentare le api che nascono e, nei periodi di magra, per sostenere tutta la famiglia. Quando ognuno di questi serbatoi è pieno viene chiuso con un coperchietto di cera; non c’è pericolo che il miele coli prima della chiusura, perchè le api costruendo le celle danno loro una leggera inclinazione all’insù.
Un tempo le api costruivano i favi senza l’intervento dell’uomo. Quando si dice “un tempo” bisogna risalire col pensiero ad epoche molto remote, forse al principio della vita sulla terra. All’inizio conducevano vita selvaggia,cioè non avevano a loro disposizione un riparo ben costruito, come quello delle api di Gaspare e della maggior parte delle api esistenti nel mondo.
Senza l’aiuto dell’uomo le api costruivano i favi dove trovavano una cavità riparata, ma per avere il loro miele bisognava distruggere l’intera famiglia di api.
Da quando, invece, s’incominciò a studiare attentamente la loro vita, le loro abitudini e istinti, le cose cambiarono. Oggi non soltanto è possibile smielare senza dare soverchia noia alle api, ma si può anche trasportare un’intera famiglia con l’arnia da un luogo all’altro. Inoltre si può seguire lo svolgimento della vita nell’interno mediante periodiche visite, che vengono fatte levando il tetto dell’arnia.
Quando l’ape rientrò, seguita da quelle che l’attendevano sulla porticina, tutta la famiglia era in movimento: erano bastate poche ore per mutare la vita delle api! Quel bel fascio di raggi tiepidi e luminosi aveva risvegliato in ciascuna i meravigliosi istinti che sono la guida nel loro lavoro.
Trentamila insetti riuniti insieme! Si potrebbe pensare a confusione e disordine, invece no: ciascuna ape senza aver avuto ordini sa quello che deve fare. Contemporaneamente nell’arnia c’erano api che ripulivano i favi dalla cera superflua; altre che spingevano verso la porticina i detriti caduti sul pavimento; altre esploravano i telaini, altre facevano la guardia alla porticina. Ma il grosso della famiglia dormiva ancora, come la regina, che è l’ape più grande e più importante di tutte, quella che rappresenta il centro e la vita della famiglia.
Le api che formavano quella famiglia erano nate prima della fine dell’autunno precedente, avevano perciò qualche mese di vita, mentre quelle che sarebbero nate nel periodo che va dalla primavera all’autunno, sarebbero vissute appena trenta o quaranta giorni: erano quindi tutte operaie esperte nei lavori dell’arnia.

IL LINGUAGGIO DELLE API

Quando abbiamo bisogno di far sapere qualcosa a una persona ci serviamo delle parole. Chi ha la disgrazia di essere muto si fa intendere con i gesti. Gli animali, che non possono parlare, si esprimono con suoni e movimenti che variano da specie a specie.
Anche le api hanno un loro modo di farsi intendere fra loro. L’ape da poco rientrata dal primo viaggio aveva una cosa importante da comunicare e appena giunta, semore seguita dalle sorelle che l’avevano attesa sulla porticina, si diresse verso un favo sul quale passeggiavano parecchie altre api. Invece di riposarsi incominciò a danzare: era una danza che consisteva in movimenti diversi dai consueti, e distinti da questi per un certo ritmo. Le api che la osservavano capirono da quel suo danzare che aveva scoperto una fonte di nutrimento, che è come dire una miniera d’oro.
Dove era? Quanto lontano dall’alveare? Quanto oro poteva dare e di quale qualità?
L’ape, dopo un attimo di sosta, riprese a danzare variando leggermente il ritmo. Le sue sorelle non risposero nulla, ma dai suoi movimenti poterono fare il calcolo della distanza della fonte e sapere che la miniera dava sì polline e nettare, ma non non grandissima quantità.
È meraviglioso che gesti e movimenti possano indicare, nell’interno dell’arnia, distanze e direzione di percorso all’aperto. Il minuscolo cervello dell’ape ha la possibilità di tradurre questi gesti e questi movimenti in calcoli esatti come un cervello elettronico senza bisogno di strumenti.
Occorreva ora che le api sorelle avessero dalla bottinatrice un’altra informazione circa la qualità dell’oro, ossia la caratteristica del miele prodotto dai fiori scoperti, derivante dal sapore, ma soprattutto, dal profumo. Nel gozzo dell’ape c’era un campione di quell’oro: una gocciola di miele. Era la prima che raccoglieva, ma quantunque digiuna non la tenne per sè, ne rigurgitò una parte. Due api le si avvicinarono, allungarono la loro proboscide, cioè la loro linguetta capace di aspirare come una pompa, e se la succhiarono.
Con questo omaggio era stata data a due sorelle l’indicazione circa la qualità del miele trovato. Non contenta l’ape riprese la danza descrivendo sulla superficie del favo dei cerchi stretti, girando ora a destra ora a sinistra. Alcune sue sorelle le si avvicinarono, e come nei trattenimenti di danze dei selvaggi, gli spettatori che assistino a quella del capo a poco a poco si eccitano e ne imitano i movimenti, così le api vicine alla danzatrice, dopo un istante, la seguirono frenetiche saltellando per arrivare a toccarle l’addome e le antenne.
Questa danza venne interrotta dopo un minuto e l’ape, senza più curarsi delle spettatrici che l’attorniavano, si spostò sul favo e ripetè l’omaggio dell’ultima gocciolina che aveva nello stomaco ad altre api e ricominciò a girare spostandosi da un punto all’altro del suo grattacielo.
Le istruzioni erano state date chiaramente a un bel numero di api. Tutte le interessate avevano capito benissimo ogni cosa, perciò era ora di sospendere la danza e di raggiungere la porticina per riprendere il volo.
Subito dietro a lei si slancia una di quelle che l’avevano seguita e toccata. Una seconda si ferma un attimo, fa una rapida toletta, va verso l’uscita… e via anch’essa! Dietro a questa ripetono gl’identici movimenti, cinque, sei, sette, dieci api.

…Ognuna raggiunge senza sbagliare, senza inutili tentativi, la miniera dell’oro desiderato. Era una vasta proda erbosa, tutta al sole, cosparsa di foglie secche fra le quali fanno capolino i primi fiori fra il seccume e il verde dei fili nuovi dell’erba. Dopo brevi istanti le corolle avevano l’ornamento del bruno-oro del corpo delle visitatrici, che passavano frettolose da un calice all’altro succhiando con avidità la gocciola di nettare che trovano in fondo, là dove la corolla teneva stretto il prezioso succo zuccherino insieme con la base degli stami, terminanti con le loro antere…

SI RIPRENDE A COSTRUIRE

Le api che non si erano avvicinate alla danzatrice avevano ugualmente inteso quanto era stato comunicato alle altre, ma non si perdettero in calcoli circa la distanza della fonte del polline e del nettare, perchè esse non sarebbero uscite dall’arnia per la cerca; capirono però che era ora di riprendere la costruzione di nuove celle per il deposito del nutrimento. Si passarono tra loro, in un baleno, la parola d’ordine che era questa:
«Sù, riuniamoci, facciamo un bel gruppo una sull’altra per aumentare reciprocamente il calore del nostro corpo» e tosto, là dove un vecchio favo era rimasto incompleto, formarono una specie di catena multipla aggrappandosi le une alle altre con le unghiette delle zampine.
Perchè avevano bisogno di aumentare il calore del loro corpo?
Una ragione c’era, e molto importante: occorreva fabbricare il materiale per la costruzione. Le api non hanno bisogno di andare a cercarselo fuori di casa, se lo producono da sole. Il loro corpo ha anche questa possibilità, che è una cosa meravigliosa.
Quando attorno e dentro il gomitolo delle api viene raggiunta la temperatura intorno ai trentasette gradi, e ciò avviene dopo circa ventiquattro ore, dai segmenti o anelli addominali delle api surriscaldate incomincia ad uscire una specie di sudore vischioso, che subito al contatto con l’aria, si rapprende e assume la forma di scagliette sottilissime, quasi trasparenti, di colore bianco avorio: è la cera, il materiale per la costruzione delle cellette.
Così come esce dalla fabbrica del loro corpo non è pronta per essere usata. Le api che l’hanno prodotta l’afferrano con le zampine e la lavorano impastandola con la saliva, poi fanno aderire la pallottolina di cera nel punto ove ha inizio la nuova costruzione. Dopo un ultimo tocco di antenne e un’ultima leccatina con la proboscide, le api si ritirano e vanno a confondersi nuovamente nel gruppo. Altre le imitano e le sostituiscono, finchè vengono ottenuti vari blocchetti di cera collocati a una determinata distanza e tutti della medesima grossezza.
Poi dal gruppo si stacca un’ape che si distingue dalle altre per il modo con cui si muove e si aggira all’intorno. Ha molta fretta di raggiungere le pallottoline collocate dalle compagne: è l’ape architetto che va a costruire le celle. Nel suo cervello ci sono già i disegni, le misure, la forma che deve dare ad esse. Non porta con sè alcun strumento, non ha fatto alcuna specializzazione per questo importante lavoro, ma le sue zampine, le sue mandibole obbediranno al comando del suo istinto, tanto raffinato da far pensare a vera intelligenza. È bastato che si presentasse il bisogno di nuove camerette perchè, sia nelle operaie addette alla fabbricazione del materiale, sia nell’ape architetto si manifestassero d’un tratto le relative capacità necesarie.
Fra le molte cose che le api sanno c’è anche quella della esatta dimensione delle celle occorrenti in un determinato momento alla famiglia in crescita, perchè se sono tutte uguali per la forma, altrettanto non lo sono per l’ampiezza. Quando si manifesta la necessità di avere una nuova regina, occorre costruire una o più celle grandi, perchè l’ape che deve crescere possa raggiungere il massimo sviluppo; se invece nell’arnia occorre aumentare il numero dei maschi che, quantunque fannulloni, incapaci persino di nutrirsi, sono necessari per dare vigore con la loro presenza alla famiglia, la costruzione comprenderà un certo numero di celle meno grandi di quelle per la regina, ma un po’ più ampie di quelle destinate alle operaie. Dunque la nascita dell’una o dell’altra specie di api dipende dalla misura della cella che la regina trova nel momento in cui si prepara a deporvi l’uovo.
Chi dà le istruzioni alle api architetto prima che inizino il lavoro? Questo è un mistero. Chissà per mezzo di quale segnale esse le ricevono! È certo però che quando cominciano a plasmare la cera sanno con precisione ciò che esse debbono fare.
Ogni ape operaie nasce, si può dire, avendo in testa anche una serie di cognizioni circa l’arte di costruire, mentre per acquistare analoghe conoscenze, all’uomo occorrono studio e esperienza.
Chi ad esempio, ha insegnato loro che le celle esagonali in confronto di quelle circolari o pentagonali o quadrate o triangolari, pur avendo la medesima capacità delle altre, richiedono per costruirle una minore quantità di cera, e che perciò la forma prescelta è la più economica e anche la più adatta al corpo delle larve?
Anche un altro grosso segreto esse possiedono in modo istintivo. È stato detto che il favo, cioè l’insieme di migliaia di celle, ha un tramezzo che costituisce la base delle due serie. Sia che questo tramezzo, come ora normalmente avviene, venga preparato dall’apicultore e applicato con sottilissimi fili metallici ai telini o cornicette di legno da inserire nell’arnia, sia che le api costruiscano da sole tutto il favo, esse hanno l’accortezza di non fare coincidere tra loro le due basi delle celle opposte.
Perchè? Perchè il pavimento cederebbe col doppio peso delle api in crescita, perciò al fondo di una cella fanno corrispondere le basi delle pareti di tre celle opposte: così è assicurata un’impalcatura che lo rende più solido e perciò più resistente.
Possiamo dunque affermare che le api sanno edificare con quasi matematica precisione e con economia, e che le loro costruzioni sono funzionali alle esigenze della vita che si volge all’interno dell’arnia.
L’ape in questo suo lavoro, è macchina che produce il materiale, tecnico che dispone forme e dimensioni, operaio e dirigente che lo sa eseguire a regola d’arte.
Che cosa si può chiedere di meglio?
Ma occorre mettere in evidenza un’altra virtù di queste care e meravigliose bestiole. L’ape che produce le lamelle di cera, dopo averle manipolate per renderle adatte alla costruzione, si ritira dal suo posto di lavoro e ritorna a confondersi col gruppo fino al momento in cui sarà in grado di ripeterlo. Altrettanto fanno le api architetto: esaurita la loro possibilità di proseguire, lasciano il posto ad altre che siano in grado di continuare la loro opera. Non è forse questo un esempio meraviglioso di collaborazione fraterna, di aiuto reciproco, anonimo, per realizzare un bene comune a tutta la famiglia?

LO STOMACO SOCIALE

Quando l’ape esploratrice uscita di buon mattino rigurgitò alle compagne che le si erano avvicinate la prima goccia di nettare raccolto, la fece uscire dallo stomaco senza serbare nulla per sè.
Lo stomaco delle api è come la borsa per la spesa: quello che esse raccolgono sui fiori appartiene a tutta la famiglia; invece quello che noi ingeriamo serve unicamente al nostro corpo.
Nel regno delle api la ricchezza di ciascuna non è proprietà esclusiva, perciò dopo aver bottinato, quella che ritorna nell’alveare consegna ad una sua sorella quanto ha raccolto: esattamente cinquantasette millimetri cubi di sostanza, o polline o nettare, di più il gozzo non può contenere.
La preziosa sostanza donata dai fiori non ha però le qualità necessarie per servire da nutrimento. Come il vino non si ottiene soltanto mettendo l’uva nei tini, così il polline e il nettare per trasformarsi in miele richiedono una serie di lavorazioni alle quali si dedicano le operaie incaricate di riceverlo. Lo impastano con una sostanza che fanno uscire da una ghiandola della testa e provvedono ad eliminare l’acqua contenuta nel nettare. Finalmente il miele è pronto per essere depositato nelle botticelle dispensa che vengono poi incoperchiate.
Ma se all’ape in volo per la cerca o per l’esplorazione viene il bisogno di nutrirsi, dove va a prenderlo?
La natura provvida ha previsto anche questa necessità in un modo meraviglioso ed ecco come: la cosidetta borsa della spesa, cioè lo stomaco deposito provvisorio del raccolto, o stomaco sociale, ha in prossimità dell’intestino una porticina segreta, cioè un apparecchio microscopico, quasi invisibile, che è con esso comunicante. Quanto l’ape sente il bisogno di nutrirsi l’apre. Allora alcune gicciole del nettare attraversano la porticina segreta e colano nell’intestino nella quantità appena necessaria e nulla più, perchè nel regno delle api non sono ammessi nè l’ingordigia, nè le indigestioni e nemmeno lo spreco.
Ed ecco rotornare in volo ad una ad una il primo gruppo di api bottinatrici che avevano seguito l’esploratrice. Trovano sulla porticina alcune loro sorelle, le guardiane, accorse poco prima per impedire l’entrata nell’arnia di una grossa formica che era stata attratta dal profumo del miele.

Con la compiacenza di un filo d’erba e del venticello primaverile in viaggio per la campagna, la formica era riuscita a salire sul terrazzino dell’arnia e raggiungere l’ingresso, sicura di poter rapidamente arrivare alle dispense del miele.
Anch’essa era in giro per eplorare i dintorni e procurare alimento alle larve della sua famiglia, rintanata in una cavità del terreno prossimo all’alveare. Ma la solerzia delle api portinaie guastò del tutto i suoi piani di raccolta: assalita, punzecchiata, respinta, infine fu fatta rotolare malconcia e mezzo morta sull’erba del prato.

LA RACCOLTA DEL POLLINE

Passate alcune settimane di molto lavoro, perchè c’era da potare le viti e gli alberi da frutto, Gaspare volle concedrsi il piacere di stare un poco ad osservare l’attività delle api, e un amttino si diresse verso l’arnia. Sulla porticina c’era un gran movimento: api che uscivano e api che entravano in fretta urtando le più lente, scavalcando quelle ferme.
Approdavano sul terrazzino e poi, senza fermarsi, raggiungevano l’apertura e sparivano nell’interno buio dell’arnia. Il terrazzino era divenuto una specie di stazione di smistamento del traffico delle api.
Osservando bene, Gaspare s’accorse che molte api in arrivo avevano qualcosa di diverso dalle altre: un ingrossamento tondeggiante su ciascuna delle due zampine posteriori: chi le aveva gialle, chi rossicce, chi bianco-verdastre. Mentre incuriosito le stava guardando, un’ape con i bitorzoli sulle zampe si scontrò con un’altra che stava uscendo in fretta; uno le si staccò e cadde sul predellino, era un minuscolo grumo di polverina del color dell’oro.
«Che cosa sarà?» si chiese Gaspare. Gli nacque il sospetto che si trattasse di una malattia, ma non era in grado di darsi un’esatta spiegazione. Però quel movimento febbrile di esseri che manifestavano tanta voglia di lavorare non poteva conciliarsi con l’idea di un malanno.
Se l’ape aveva perduto la sua pallottolina dorata era perchè aveva fretta, non voleva perdere tempo, cosa che non avviene in chi non gode di buona salute. Ma il cervello del contadino privo di cognizioni sul lavoro delle api, non poteva andare più in là delle facili considerazioni su ciò che i suoi occhi vedevano.
Le api indifferenti alla presenza del padrone del frutteto, che non dava noia perchè stava immobile, continuavano ad arrivare cariche di polline. Dopo averlo scaricato nell’interno, ripartivano in fretta.

Le primule gialle erano oramai quasi del tutto scomparse, ma persistevano le infiorescenze dei giunchi, i bucaneve, i fiori viola dell’erba trinità con ua miriade di stami e le antere cariche di polline biancastro, e quelli della pervinca. Si erano aperti anche i fiori gialli del corniolo e nei campi le api avevano scorto, in lontananza, i tappeti dorati del ravizzone in fiore. Su tutti quei fiori primaverili le api andavano a raccogliere polline».

Gaspare non sapeva che quei bitorzolini colorati appiccicati alle zampe erano grumi di polline, la polverina lievemente vischiosa che i fiori producono e fanno uscire dalle antere, le borsette poste in cima ai sottilissimi filamenti degli stami. Non sapeva nemmeno un’altra cosa, e cioè che quando le api portano nell’arnia polline in abbondanza è segno che c’è la covata da alimentare.
Il prendere polline dai fiori non è commettere un furto: le api non sono saccheggiatrici, anzi, raccogliendolo aiutano, senza saperlo, la pianta a produrre di più. Infatti l’apiculture aveva detto a Gaspare che la presenza delle api nel suo podere gli avrebbe portato vantaggio. Perche?
Perchè le piante per poter dare nuovi frutti con semi capaci di farne nascere altre della medesima specie, hanno bisogno che il polline dei loro fiori vada a posarsi su quella sporgenza vischiosa che sta in mezzo alla corona degli stami.
Questa sporgenza è lo stigma, che ha la capacità di trattenere i granuli dei quali la polverina è composta e anche di sorbirli facendoli scendere nell’interno, come attraverso un tubo, fino alla base del fiore dove stanno rannicchiati dentro una cameretta chiusa tanti piccoli ovoli che l’attendono per divenire semi buoni a produrre nuove piante.
Ma la maggior parte dei fiori di queste piante pare che non ne vogliano sapere di dare il polline al loro stesso stigma; infatti, quando le antere si aprono per farlo uscire, questo dorme ancora e perciò non lo riceve, mentre quando si sveglia le antere sono già vuote e forse anche distrutte.
Perchè, dunque, il polline di un fiore passi sul pistillo di un altro già maturo ci vuole l’aiuto degli insetti, dei quali i più utili sono proprio le api: esse servono il settantatrè per cento dei fiori esistenti sulla terra e compiono il loro lavoro con una sapienza davvero sorprendente, perchè oltre a non sciupare la freschezza del fiore, non scaricano mai il polline di un fiore sullo stigma di un qualsiasi altro dei mille e mille fiori a loro disposizione, ma sempre su un fratello di quello visitato precedentemente, cioè su una pianta della medesima specie del primo.
Se le api impazzissero e nel loro bottinare andassero indifferentemente su uno o sull’altro fiore, raramente questi verrebbero impollinati, perchè i granuli di polline variano per forma e qualità a seconda della specie di pianta che li produce e non vengono ricevuti dagli stami di altri fiori.
In questo meraviglioso istinto, che pare intelligenza, sta il grande aiuto che le api danno all’agricoltura.
Gaspare non sapeva tutto ciò, ma purtroppo non era il solo lavoratore dei campi di quel luogo che ignorasse queste importanti cognizioni scientifiche. Ritornato al suo lavoro ripensava alle borsette appiccicate alle zampe delle api e si chiedeva: «la trovano già pronta in pallottole quella polvere che si portano a casa? Come mai le api non la perdono volando?»
Mentre così rimuginava nella sua mente, sentì uno scalpiccio dietro di sè. Si voltò: era l’apicultore.
— Tutto bene, Gaspare?
— Mi pare di sì, sono là che lavorano.
— Portano?
— Credo di sì, perchè hanno qualcosa sulle zampine. Ma ditemi: dove vanno a prendere quella roba? Penso sui fiori, perchè ne vedo sempre qualcuna indaffarata a frugarvi in mezzo. Però non riesco a capire come fanno a trasportarla senza perderla.
— Zampine, zampine, mio caro! Quelle due che le api hanno dietro sembrano zampette comunissime, invece no; sono macchine capaci di compiere più lavori insieme,perchè ciscuna dispone di una spazzole, pettine, pinza e cestella per eseguirli. Con questi mezzi esse raccolgono il polline caduto sul loro corpo e rimasto attaccato alla peluria che lo ricopre, lo comprimono, lo inumidiscono perchè aderisca alla cestella, che è una cavità delle zampine di appena tre millimetri, orlata di peli sottili e lunghi. Questi servono da stanghe per trattenere il carico e perciò appena questo è avvenuto si drizzano.
— Ora capisco tante cose — mormorò Gaspare. — Ma chi va a pensare che queste bestiole così piccole possano fare tutto così bene?
— Il bello è che tutto questo lavoro di raccolta e di trasporto del polline — proseguì l’altro — esse non lo fanno da ferme, ma quando sono in volo, per non perdere tempo.
— Ditemi, voi che conoscete tutti i loro segreti, che cosa se ne fanno le api di quella polverina?
— Che cosa se ne fanno? Il polline è indispensabile per allevare la covata ed è utilissimo alle api che producono la cera Sentite questa : l’ape che arriva nell’arnia con il suo carico sapete che cosa fa? Fa entrare le sue zampine cariche in una cella e poi, come oggi si usa scaricare un carro pieno manovrando una leva, così l’ape fa funzionare il suo sperone, proprio come una leva, per far cadere la pallottolina di polvere dentro il recipiente, poi ritorna subito fuori per riprendere il lavoro di raccolta.
Gaspare sentiva che qualcosa s’illuminava dentro di sè, quello che aveva capito era una cosa bella, anzi meravigliosa; però aveva sentito dall’apicultore parlare di covata, di clele, di favo, senza sapere che cosa fossero.
Covavano le api come le galline? Che cosa erano le celle? Che cosa i favi?

LA COVATA

Come se l’apicultore avesse letto nella mente di gapare, lo invitò a seguirlo. Giunto presso l’arnia gli disse:
— State là fermo; se qualche ape vi si avvicina non muovetevi, non scacciatela, perchè s’irriterebbe e potrebbe pungervi. Stareste male voi, ma peggio lei, perchè non ritornerebbe più nell’arnia, morirebbe dopo avervi punto. Se vi capiterà di ricevere una pinzatura, soffregate sulla parte con quest’erba. — E gli consegnò alcune foglie di piantaggine lanceolata. — Vedrete che non succederà nulla, il dolore spariràsenza gonfiore.
Detto questo si mise la maschera, i guanti e accese l’affumicatore che aveva portato con sè. Poi levò dall’arnia il tetto e tolse un telaino del centro. Lo esaminò e invitò Gaspare a guardarlo: era tutto coperto di api che si muovevano attorno. Al centro si vedevano tanti bottoncini un poco rigonfi: erano cellette coperte da un leggero strato di cera. Altre vicine a queste mancavano del coperchietto e in esse si vedeva che era stato posto sul fondo una cosina simile a una virgola blustra.
— Questo è il favo — spiegò l’esperto — e queste le cellette che lo compongono. Quelle al centro del favo sono coperte perchè stanno per nascere le nuove api, quelle che daranno il cambio alle più vecchie: è la covata, che aumenterà ancora.
Poi rimise il favo al suo posto e ne tolse un altro: — In questo non c’è covata, ma si vedono altre celle chiuse: sono piene di miele e di polline. Quelle che luccicano sono ancora aperte e non del tutto riempite.
Gaspare vide e non vide, cioè guardava cercando di capire qualcosa di quel ricamo a buchette tutte uguali che formavano il favo, ma era preoccupato di difendersi dalle api che gli ronzavano intorno, l’apicultore rimise tutto al suo posto e richiuse l’arnia.
— Ritornerò con altri telaini da aggiungere a quelli che ci sono. Vedo che le vostre api lavorano molto e presto la famiglia aumenterà ancora, può arrivare anche a novantamila unità.
Le api che erano state disturbate non tardarono a rimettersi tranquille per riprendere il loro lavoro, perchè quello era un periodo di intensa attività fuori e dentro l’arnia. La regina riprese la deposizione delle uova, avendo sempre attorno a sè le ancelle che la seguivano, pronte a nutrirle con la pappa reale appena ne manifestasse il bisogno. Si capiva dal modo col quale si muovevano di quanto rispetto e venerazione la circondavano. Non osavano nemmeno voltarle il tergo quando si spostavano, tanto era ossequioso il loro rispetto.
Quando si muove, la regina va di cella in cella a deporvi un uovo. Quella dell’alveare di Gaspare aveva tre anni e avrebbe potuto continuare per altri due ad essere il centro e la vita della sua famiglia.
La regina andava dunque da una cella all’altra, ma non in modo disordinato, bensì seguendo una linea a spirale nel centro del favo. L’ordine è una legge che regola tutta la vita dell’alveare; guai se venisse trascurato! La regina dà per prima l’esempio di perfetta osservanza.
Dapprima entra con la testa in una cella per assicurarsi che sia vuota e sia stata ripulita a dovere, poi esce e vi rientra in senso inverso, vi si sofferma un paio di secondi per deporre l’uovo che rimane aderente al fondo e quindi esce.
Che cosa nascerà da quell’uovo? Un’ape operaia o una regina o un fuco?
Sappiamo che la regina può deporre tre specie di uova. Quando entra con la testa per assicurarsi che la cella sia libera e pulita, prende anche cognizione della sua ampiezza e in relazione a questa depone o l’una o l’altra specie di uovo, cioè quello che fa nascere un’altra regina se la cella è ampia più delle altre, un fuco se è di media grandezza, e infine, una operaia se la cella ha dimensioni comuni.
Dunque non dipende soltanto da lei se da una cella uscirà l’una o l’altra specie di api, bensì anche dalle operaie che le hanno costruite, il che sta a dimostrare che nel regno delle api non esiste una monarchia assoluta.
La regina per i suoi sudditi è esempio di ordine, ma anche di operosità, perchè prosegue instancabile il suo lavoro di giorno e di notte. In un solo giorno depone un migliaio e mezzo di uova scaricandosi di un peso pari al suo corpo. Alla fine di una giornata di lavoro non rimane priva del suo prezioso deposito, perchè le uova le si riproducono con sorprendente rapidità. Perciò può continuare per parecchi giorni a deporne fino ad esaurimento delle sue forze, dopo di che è costretta a concedersi un periodo di riposo, sempre assistita però dalle sue deferenti nutrici.

LA NASCITA DELLE API

Tre giorni dopo la deposizione, le uova si schiudono e lasciano uscire un vermiciattolino, la piccola larva bianca che dimostra subito di avere appetito. Ma da sola non sa procurarsi il cibo: pertanto accorre in suo aiuto un’ape operaia che da quel momento diviene la sua nutrice e la segue nel suo sviluppo fino a che sarà completamente formata.
Dopo altri sei giorni la larva si è fatta grassoccia e non sente più il bisogno di nutrirsi. Sente invece che è venuto il momento di passare un periodo di quiete, perchè deve iniziare una fase delicata e importante della sua esistenza: la trasformazione del corpo da vermiciattolo in ape adulta, fornita di tutti gli organi necessari ai lavori che sarà chiamata a fare e, se ape operaia, anche dell’arma per la difesa della famiglia: il pungiglione.
Nella società delle api le armi sono affidate alle operaie e alla regina, ma non ai fuchi, cioè ai maschi, sono cioè le api che lavorano di più ad avere il diritto e l’onore di difendere dai nemici il patrimonio comune.
A ben riflettere, non è cosa da poco cavare dalla scarsa sostanza che sta dentro il corpo della minuscola larva, nutrita di un po’ di polline e di miele, un insetto dotato di mezzi e di istinti tanto perfezionati quali sono quelli dell’ape; ma alla natura, opera di Dio, tutto è possibile.
Per lasciare in pace la sua pupilla in via di trasformazione, la nutrice le costruisce sulla cella un coperchietto di cera, fatto a volta, mentre nell’interno la larva si avvolge in un sottile sacchetto: il bozzolo. Chiusa dentro la sua candida veste leggera sta dodici giorni.
Non tutte le larve hanno la medesima età, perciò sui favi si possono avere contemporaneamente celle aperte con l’uovo, celle chiuse con dentro ninfe o pupe, cioè larve in via di trasformazione, e celle che stanno per aprirsi, dalle quali sporgono o le antenne o la testa o parte del corpo delle giovanissime api.
Appena fuori dal bozzolo, queste devono fare pulizia sul loro corpo e pulizia della cameretta che le aveva ospitate. Ha inizio così la loro vita di lavoro, se sono api operaie.
Non sono concesse ore di riposo e di svago, la disciplina che regola la vita dell’alveare è rigida e severa. Il riposo è ammesso soltanto in base alle condizioni atmosferiche e al succedersi delle stagioni.
I maschi, che non hanno speciali compiti da svolgere nell’interno dell’arnia, impiegano tre giorni di più delle operaie a nascere.
Il secondo lavoro delle giovanissime operaie è umile, ciascuna deve pulire la cella di una sua sorella. Ed eccola, obbediente, ad eseguirlo: entra nella stanzetta vuota con la testa e con parte del corpo del quale sporge soltanto l’estremità posteriore; si assicura della pulizia e lecca le pareti umettandole di saliva. Questo lavoro fa pensare a quello degli operai addetti alla pulizia degli scompartimenti dei treni, quando, finito il percorso, salgono nelle vetture lasciate vuote dai viaggiatori.
Ma quello che viene compiuto dalle api è qualcosa di più di una comune pulizia, pare che la regina non deponga le uova nelle celle che non furono ripulite dalle leccate delle giovani api.

Come nella prima fase dell’esistenza umana, che corrisponde al periodo di formazione dell’organismo, non è ammesso che il fanciullo sia sottoposto ad uno sforzo eccessivo nel lavoro, così nel mondo delle api, in attesa che che il corpo delle giovanissime acquisti le forze necessarie, vengono ad esse affidati lavori di non eccessivo impegno, come eseguire la pulizia sopra descritta, o aiutare nella produzione di calore per la covata rimanendo aggrappate una sull’altra in modo da formare una specie di imbottitura che la ripara da eventuali sbalzi di temperatura.
Tre giorni di questo primo allenamento passano presto, ma sono sufficienti per sviluppare un po’ di più le possibilità della minuscola, ma complessa e prodigiosa macchina volante, che è l’ape.
Subito dopo, perciò, le giovani operaie avanzano di grado e assumono il compito di vigilare e di proteggere l’alveare, senza bisogno di particolari distinzioni, senza galloni nè divisa. Ma vengono provvedute del pungiglione, l’arma necessaria per combattere, se occorre, nei posti di vigilanza. Sono proprio queste giovani guardiane che assalgono e pungono.
La loro attività è indispensabile, specialmente nel periodo della fioritura dei prati e degli alberi, quando anche la famiglia si accresce di giorno in giorno per le nuove nascite. Guai a non saper vigilare e difendere! Il profumo del miele già accumulato, che si spande intorno all’arnia, attira api di altre famiglie più povere e insetti e bestiole di ogni specie, non esclusi i topi campagnoli.

Ecco: un bruco, un incauto bruco verde calatosi sul predellino col suo filo di seta da un ramo prospiciente sta avvicinandosi alla porticina dell’arnia di Gaspare. È stato sospeso a lungo come un funambolo alla sua corda, e finalmente si è deciso ad atterrare e a varcare la soglia di quella, per lui, gigantesca casa. Due api guardiane erano intente a respingere una piccola farfalla con le ali cariche di una polverina bruna che andava via via staccandosi e sperdendosi nella lotta. Il bruco verde si affrettò con le sue zampette tozze e basse a farsi avanti fino a raggiungere l’interno dell’arnia. Quando si riteneva ormai al sicuro e già incomincia a godersi il tepore di quell’ambiente e il profumo che veniva dai serbatoi dei grattacieli, si sentì precipitare addosso una squadra di api guardiane che lo colpirono in più parti del corpo con il loro pungiglione. Rimasto paralizzato, non potè più fare un solo movimento, non vide più nulla, non sentì più nulla: era morto.

Morirono anche le api che lo avevano punto? Ah, no! Esse perdono il pungiglione, con parte degli intestini ai quali è unito, quando pungono l’uomo, ma non quando pungono un insetto.
La squadra che aveva ormai esaurito il suo compito venne sostituita da un altro gruppo di api: i necrofori dell’arnia. Un insetto morto non deve rimanere nella loro casa: «Fuori, fuori, buttiamolo fuori» pareva che dicessero manovrando antenne, zampe e mandibole. Passerà dalla porticina? No, è troppo grosso, il suo corpo non è più elastico come quando era vivo, perciò non cede alla spinta. «Ebbene, gli faremo qui dentro il sepolcro, con il nostro cemento». Andarono subito verso la loro riserva di propoli, che è una sostanza formata di resina, cera e olio essenziale, raccolta dalle api e da esse adoperata per tappare le fessure dell’arnia o per dare seppellimento ai corpi estranei che non possono essere trasportati all’esterno.
Non ritornarono subito sul posto, perchè il propoli era duro e per rammollirlo occorreva scaldarlo leggermente col corpo; ma non abbandonarono l’impresa perchè, imputridendo, le spoglie del bruco avrebbero infestato l’aria perfettammente pura della loro casa.
Non è ferocia la loro, ma indispensabile difesa dai pericoli che minacciano continuamente l’organizzazione e la vita della famiglia.

Anche il periodo di attività come guardiane passa presto e successivamente ha inizio quello di bottinatrici, cioè di api che si dedicano alla raccolta del nettare e del polline, compito che durerà fino ad esaurimento delle loro forze.
Nel frattempo la famiglia si è notevolmente accresciuta, anzi quasi triplicata. Troppe api nell’arnia possono creare confusione e allora le anziane, quelle sopravvissute dall’autunno precedente, ormai prive di forze, con le ali logore e sfrangiate, con la peluria del corpo fattasi rada e la chitina, cioè il rivestimento che costituisce il loro scheletro esterno, divenuta scura, se ne vanno ad una ad una senza più ritornare nella loro casa.
Non vogliono morire nell’alveare per non creare imbarazzi e causa di maggior lavoro, ma soprattutto non vogliono imbrattarlo con le loro spoglie. Il rispetto alla pulizia dell’arnia, giunge nelle api a tal punto che si trattengono per tutto il periodo invernale dal liberare il loro corpo dei rifiuti. Soltanto all’inizio della primavera escono tutte per fare il cosidetto volo di purificazione, cercando, e chissà perchè, di scaricarsi su una suerficie bianca.

Le api adulte sanno, inoltre, che nell’arnia c’è posto per la culla e non per la tomba, perciò finito l’ultimo lavoro che solitamente è il medesimo dell’inizio della loro esistenza, escono dall’arnia e vanno a finire tra le erbe e i fiori nel pieno risveglio della natura.

INTENSA RACCOLTA DEL NUTRIMENTO

Quando si fermò a guardare le sue api, Gaspare si accorse che fra le portatrici di nettare ve n’erano alcune che ritornavano senza portare nulla sulle loro zampine.
Erano forse uscite per divertimento?
No, nessun volo viene fatto dall’ape senza uno scopo utile e preciso. Molte portavano nella borsetta, che non si può vedere dall’esterno, il nettare raccolto sui fiori, cioà la sostanza zuccherina che essi fabbricano; altre, invece del miele, portavano acqua, altre ancora non avevano nulla, ma erano uscite per fare i primi viaggi di esplorazione e di orientamento.
Le api iniziano questa importante esercitazione quando le nervature delle loro ali hanno acquistato rigidità e sono munite delle apparecchiature necessarie al loro modo di volare. Queste consistono in una serie di ganci fatti come ami da pesca,che si appigliano a una piega rigida sporgente delle ali anteriori.
Con le due paia d’ali saldamente unite insieme, l’ape in volo può fare maggiore resistenza all’aria, ma può anche sganciarle all’occorrenza, con la massima celerità. Altre segrete apparecchiature esistenti nel copro permettono loro di inalzarsi, spostarsi in qualsiasi direzione, salire, scendere ed anche muoversi all’indietro, quando nel volo sono inseguite dalle rondini.
Comandi, leve e motori funzionano con poco spreco di carburante perchè la macchina è perfetta nella sua organizzazione.

Un mattino Gaspare uscendo di casa credette di vedere posate sugli alberi del suo frutteto alcune nuvolette leggere bianco-rosate: era la fioritua dei peschi, dei meli, dei ciliegi. Ogni ciocca di fiori aveva due, tre, quattro corolle aperte e le altre pronte a sbocciare. Lo spettacolo era stupendo e ne godette anche lui, sebbene da molte primavere fosse abituato a vederlo. Ripassando più tardi accanto alle piante si fermò ad ascoltare un brusio insolito, insistente, che veniva dai rami in fiore di un bellissimo melo.
«Che cosa succede lassù?» si chiese. Uno, due, tre petali in silenzio si staccarono e con molta leggerezza andarono a posarsi sul cocuzzolo del suo cappello. L’uomo guardò in sù e vide l’indaffarato movimento delle api che passavano frettolose da un fiore all’altro, come se ne temessero la fuga. Fermò il suo occhio su una ciocca e scorse finalmente anche lui la polverina gialla che le api raccoglievano.
«Ho capito», disse fra sè «stanno facendo quel lavoro dell’altro giorno: portano!» E se ne andò.
Quanto lavoro in quei giorni di fioritura degli alberi da frutto! Pareva che da tutti i rami partissero insistenti richiami alle api:
«Venite da noi, venite qui, fate presto! Ora l’aria è dolce e i serbatoi del miele e del polline si rinnovano continuamente. Ci vedete? Sentite il profumo dei nostri fiori?».
Sì, le api li vedevano, perchè la loro vista è ottima. I loro occhi, seppur senza pupilla, senza iride e lente cristallina, vedono benissimo e in tutte le direzioni attraverso le sei o settemila faccette degli occhi laterali composti e del triplice occhio della fronte.

Ma quella magnifica distesa di bianco e di rosa non si rifletteva nell’occhio delle api così come la percepiva Gaspare; il bianco e il rosa si traducono, nell’occhio dell’ape, in un sol colore verde bluastro.
Eravamo ormai nel cuore della primavera e gli alberi di acacia una mattina, annunziarono la loro fioritura diffondendo all’intorno il profumo penetrante e dolciastro delle corolle.

Le prime api uscite dall’arnia lo avvertirono subito e tosto rientrarono facendo sui favi una danza spasmodica: muovevano vigorosamente l’estremità dell’addome, come se fosse una coda, da destra a sinistra, tracciando archi, voltandosi da un lato e dall’altro per toccare le api che si avvicinavano. Queste capirono subito che era stata scoperta una sorgente abbondante e non molto lontana di nettare fortemente zuccherino, perciò appena interpretati i segnali sfrecciarono via, una dopo l’altra, per la raccolta del nutrimento, tracciando nel percorso voli rettilinei senza incertezze o deviazioni.
Durante quella giornata fu un incessante andare e venire.
«Presto, fate presto, prima che il tempo si guasti!» pareva sussurrassero alle api i penduli grappoli dell’acacia, dondolandosi dolcemente. «Il cielo primaverile è spesso mutevole. Se si metterà a piovere dovremo chiudere i nostri fiori che non vi daranno più nulla».
Le povere bestiole indaffarate, partivano dall’arnia con la velocità di sessantecinque chilometri all’ora. Nel ritorno rallentavano fino a venti all’ora, perchè erano cariche. Quando giungevano sui fiori allungavano la loro linguetta sino in fondo alla corolla e leccavano il nettare che poi assorbivano facendolo passare nella cavità della bocca e quindi nello stomaco.
Nell’andare e nel tornare viaggiavano su rotaie aeree tracciate dal passaggio delle prime api bottinatrici mediante le scie dell’odore lasciato nel loro percorso, così come gli aerei tracciano talvolta nel cielo le lunghe strisce bianche della loro traiettoria.
Quanti viaggi devono fare le api per radunare un solo chilogrammo di miele? Quelle di Gaspare, che avevano il maggior numero di piante di acacia a cinquecento metri dall’arnia, per radunare un chilo di miele, portandolo a goccia a goccia nella loro borsetta, fecero un percorso aereo di quarantamila chilometri, tanti quanti all’incirca ne occorrono per fare il giro del mondo intorno all’equatore.

Quando l’intensità della luce diminuisce, le api non riuscendo più a distinguere le cose, si trattengono nell’arnia a riposare o, se necessario, a lavorare ancora cambiando occupazione, perchè l’alveare nel pieno della bella stagione è come uno di quegli stabilimenti nei quali il lavoro non viene mai interrotto, nemmeno la notte. Dell’attività degli stabilimenti ci si accorge dalle luci che rimangono accese nell’interno, ma nell’alveare regna il buio perfetto, come se tutte le api dormissero.
Però accostando l’orecchio, si sente un brusio sommesso, ma continuo. Ogni lavoratrice ha il suo fanalino in testa, come i minatori, cioè l’occhio della notte per vedere, e le antenne, il senso del tatto, per capire la direzione dei movimenti.
Di giorno, quando esse volano sui fiori, ci sono due cose che non interessano: la forma e anche il colore; invece esse danno importanza ai segnali indicatori del punto in cui possono affondare il succhiatore del miele: sono righe, macchie, pennellate di colore violaceo, blusatro che i loro occhi distinguono benissimo anche a distanza e che esse seguono nei loro movimenti sul fiorei, più di quanto i pedoni non rispettino le strisce tracciate per la viabilità.

Il fiore tace, ma indica così con i suoi segnali all’ape la direzione, dove posarsi e trovare il tesoro che sta cercando. Oltrechè con le strisce e le macchie, il fiore, questo miracolo della natura, attira e dirige le sue ospiti anche col profumo.

VARIAZIONI DI STAGIONE

Nel mese di maggio si erano succedute giornate con un clima dolce e leggermente umido, perciò la produzione del nettare sui fiori si rinnovava con abbondanza di ora in ora. Nell’arnia centinaia e centinaia di celle erano piene di miele d’acacia, fresco, dorato, profumato.
Le tine spalancate lasciavano diffondere nell’interno un intenso odore che inebriava. Dopo quello di maggio sarebbe entrato nell’arnia il miele dei trifogli bianchi, della lupinella, della veccia, del meliloto, tutto di prima qualità, e successivamente il nettare dei castagni e dei tigli.
Occorreva perciò rinforzare la vigilanza.
Ma una sera l’aria si fece improvvisamente secca, poi d’un tratto si caricò di una caligine pesante, afosa. Il giorno seguente la temperatura aumentò notevolmente e i fiori rallentarono la produzione. Nell’arnia il calore soffocante si era fatto insopportabile: era giunta l’ora di mettere in azione i ventilatori.
Un gruppo di api si dirige alla porticina, altre si appostano in vari punti dell’interno e sui favi. Mettono subito in azione le loro ali facendole vibrare con tale velocità da renderle quasi invisibili.
«Forza, ventilatori di seta, lievi, trasparenti, aerei, scacciate l’aria calda che minaccia di far colare il miele sul pavimento dell’arnia e di paralizzare il lavoro delle nutrici!»
La fatica aumenta, le operaie si danno il turno nel fare da ventilatori; le bottinatrici rientrano con scarso raccolto. Alla fine della giornata tutte sono estenuate dal gran caldo ed escono in gran numero sul terrazzino a prendere un po’ d’aria. Ma non c’è posto per tutte e allora si calano giù oltre l’orlo e aggrappandosi l’una all’altra con gli uncini delle zampe, formano una specie di “barba”.
Anche Gaspare era, come le sue api, affaticato e la sera, invece di coricarsi presto come era suo costume, se ne stava all’aperto ad aspettare che giungesse un po’ d’aria ristoratrice.

Una sera dopo cena andò a vedere le api. Quando si avvicinò all’arnia non credette ai suoi occhi. La “barba” quasi toccava terra.
«Che cos’è questo?» si chiese «Stanno forse per scappare  tutte?» Si ricordò di quanto gli aveva detto l’apicultore «se vedete qualcosa di strano, telefonatemi».
E così fece subito dal più vicino apparecchio.
Il giorno seguente l’esperto era già sul posto di buon mattimo, ma la “barba” non c’era più: le api avevano ripreso il consueto normale movimento.
— Avete fatto bene ad avvertirmi subito; bisogna dare aria all’arnia e mettere la soffitta, cioè una aggiunta di telaini più piccoli a questi del nido. L’ho portata con me già pronta, ora la metto a posto, così eviteremo che le api sciamino. — Gaspare tacque.  «Che cosa volevano fare le api?» si chiese.
L’apicultore in pochi minuti sistemò ogni cosa; l’arnia era divenuta più alta di circa dodici centimetri.
— Vedete, Gaspare, quando la vita diviene insopportabile nell’arnia perchè non c’è posto per tutte le api, si corre il pericolo di perdere la famiglia. La regina esce di casa e dietro a lei vanno le sue damigelle, le sue nutrici, i maschi e le operaie.
— Dove vanno?
— A cercarsi un’altra casa. In attesa che le esploratrici la trovino, svolazzano sollevandosi nell’aria come un turbine. Quando la regina si ferma, ciò che fa generalmente su un ramo a non molta distanza dall’arnia, le altre le si radunano intorno formando una specie di grappolo. Questo è lo sciame. Se si è pronti a raccoglierlo si può riportarlo nell’arnia, purchè lì dentro, con le api rimaste, non vi sia un’altra regina. In questo caso bisogna subito provvedere un’altra arnia. Se invece non ci si accorge in tempo, dopo poche ore lo sciame parte ed è perduto per sempre, perchè è difficile rintracciare la nuova dimora: può essere un vecchio albero o una cavità qualsiasi nascosta o un’arnia vuota e abbandonata, chissà quanto lontano dal luogo da dove sono partite! Ora lasciamo le cose come stanno, se vi accorgete di qualche altro movimento irregolare ritornerò qui e allora darò un’occhiata ai telai più grandi, quelli detti del nido, per assicurarmi che vi sia una sola regina, altrimenti…
— Altrimenti che cosa?
— Nasce la lotta fra la vecchia e la giovane e la famiglia si divide: sciama.
— Ho capito, starò attento.
— Vi avverto che insieme con lo sciame perdereste anche buona parte del miele.
— Perchè?
— Perchè le api prima di partire se ne riempiono lo stomaco, sono previdenti, non si mettono in viaggio senza una scorta di viveri!
— Allora è meglio che diate subito un’occhiata ai favi, giacchè avete tutto l’occorrente per farlo.
— Posso accertarmi se nell’arnia vi sono larve di regine che stanno per nascere accostando l’orecchio alla parete dell’arnia. Se ci sono, si parlano tra loro e noi apicultori sappiamo distinguere il loro linguaggio, che è fatto di un suono speciale e, per loro che sono “dentro”, anche di un particolare odore.
Le api operaie, che come vi ho detto sono previdenti, costruiscono quasi sempre in basso, appartate dalle altre, una o più celle grandi per avere a disposizione una regina nel caso che la più anziana si ammali, muoia o se ne vada sciamando. Ma le giovani regine non si fidano a uscire finchè dentro l’arnia c’è quella anziana e, per non morire di fame prigioniere nella loro cella, fanno un piccolo foro al coperchietto e spingono fuori la linguetta. Un’ape nutrice accorre in aiuto di ciascuna con la pappa reale per nutrirle, come si fa con i prigionieri ai quali si somministra il cibo attraverso la grata che li separa dalla comunità. La regina anziana sa che esistono le sue rivali, perchè, come vi ho detto, si parlano come suore in un parlatorio, attraverso l’opercolo delle celle. Soltanto quando l’odore della regina anziana non c’è più, perchè se ne è andata, le prigioniere escono dalla cella e tra loro ha inizio la lotta. Vince sempre la più forte, le altre vengono ammazzate dalle operaie.
Ora non parlo più, perchè voglio provare se mi riesce di scoprire qualcosa ascoltanto.
L’apicultore accostò l’orecchio ad una parete dell’arnia e stette in ascolto alcuni minuti quasi senza più respirare.
— Non mi pare che vi siano segnali particolari; ad ogni modo voi venite di tanto in tanto a dare un’occhiata alle vostre api. Ormai avete fatto l’occhio al movimento normale sulla porticina. In caso di guai bisogna aiutarle in tempo se vogliamo che lavorino bene e accumulino un’abbondante riserva di miele. Questo avverrà di certo se la stagione proseguirà bene. Prima di andarmene voglio darvi un’altra istruzione: può darsi che fra qualche giorno voi vediate uscire dall’arnia parecchie api più grosse e più scure delle operaie, un po’ stanche, deboli, che si aggireranno intorno come chi è privo di forze, smarrito, perchè da tempo non prende cibo. Si tratta delle api maschi ai quali le nutrici hanno sospeso il nutrimento; da soli, come sapete, i maschi non sanno cercarselo, perciò resistono finchè possono e poi, parte dentro l’arnia, parte fuori muoiono tutti, ma questo fatto non porta danno alla famiglia, perchè non c’è più bisogno della loro presenza.
— Vi pare giusto questo?
— Giusto o no, nel mondo delle api questa è la legge. Le api maschio d’inverno consumerebbero le riserve necessarie a mantenere in vita la regina e le operaie. Capirete, si tratta di vita o di morte della loro società.

Poco dopo Gaspare stava entrando nella stalla quando si sentì chiamare dall’apicultore.
— Mi sono dimenticato di dirvi che ho levato la griglietta con i chiodi che era sulla porticina perchè le api siano più libere nei loro movimenti, ora che sono in molte ad entrare ed uscire. Vi avverto però che da questo momento aumenta il pericolo per le api e per il miele perchè dall’apertura possono entrare più comodamente le farfalle, i topolini, le vespe e altre bestiole ghiotte di miele. Qui non vi sono gli orsi, i più grandi ghiottoni di miele, ma esistono i lupi del miele che sono insetti simili alle vespe, devastatori terribili e nemici delle api, e vi sono le tarme della cera. State dunque attento, vigilate!
Gaspare rimase turbato da queste racomandazioni perchè sentiva di avere da quel momento una responsabilità in più.
«Sempre nemici – borbottava tra sè – nemici dappertutto: nella stalla, sulle piante, nei prati, nel campo e ora anche nell’arnia. Il nostro lavoro è una continua lotta… Chi non sa vigilare perde tutto, anche l’anima sua…»

In quel momento una capinera sul tetto della stalla, fece una bella cantatina allegra.
«Ma sì» disse Gaspare «hai ragione anche tu, non è poi tutto nero quello che succede a questo mondo. Tienti all’erta piuttosto, non desiderare soltanto la pace, ma cerca di allontanare la guerra dai tuoi sudati beni nella stalla e nel campo.

A voler scansare la fatica dello stare a occhi aperti sul lavoro c’è il pericolo di vedersi portar via ogni cosa e di ridursi come quella gente che ogni tanto passa di qui a chiedere un sacchetto di farina o il permesso di passare la notte sul fieno».
Afferrò il tridente che teneva a portata di mano nella stalla, sempre continuando a rimuginare i suoi pensieri.
«Ho capito», concluse alla fine «per difendersi bisogna sapere molte cose e non dormire sull’ignoranza».
E con la forca si diede a riempire la greppia del buon fieno odoroso per il suo bestiame.

INTERVALLO DI CATTIVO TEMPO

Le rondini volano basse, quasi rasente il prato, segno questo che la pioggia era vicina. Infatti dopo pochi giorni incominciò a scendere acqua dal cielo. Non c’era da sperare in un rapido ritorno del bel tempo, perchè le nubi andavano infittendosi sempre più, accavallandosi e rendendo sempre più denso lo strato che copriva il sole. La temperatura subì uno sbalzo quasi improvviso, alla pioggia insistente che batteva sulle erbe e sui fiori si era aggiunto il vento, dapprima freddo di tramontana e poi caldo, sciroccoso. Ogni tanto la sua forza trascinava in corsa sui prati qualche nube sfilacciata, grigia, che dava tristezza. Senza il sole anche il verde pareva non avesse più colore e i pochi fiori rispuntati nel prato, dopo il primo taglio dell’erba, erano bianchi, perciò non davano allegria.

I lavori agricoli all’aperto erano stati sospesi, soltanto di tratto in tratto, negli intervalli dei rovesci di pioggia, Gaspare usciva fuori per dare un’occhiata alle piante.
I frutticini dei meli e dei peri si erano notevolmente ingrossati e i rami stracarichi pendevano giù verso terra. Carichi così di frutta egli non li aveva mai veduti e ripensò a quanto gli aveva detto l’apicultore all’inizio della stagione: «avrete più frutta, con le api nel vostro podere».
«Purchè non venga una grandinata a guastare tutto!» commentò tra sè. «Se però lascio i rami più carichi senza sostegno, col peso della pioggia si spezzeranno» e camminando in fretta andò verso il ripostiglio, ove, in un angolo, teneva radunate le pertiche biforcute.
Nel ritorno passò davanti all’arnia e fermò l’occhio sulla porticina: c’erano poche api in movimento sul predellino, temevano anch’esse la pioggia, e poi perchè uscire? I fiori avevano poco nettare, le antere erano chiuse come le botteghe nei giorni di sciopero.
Gaspare si fermò e, vedendo intorno uno squallore di erbe bagnate, si ricordò di quanto aveva notato in una bella mattina di sole quando in quello stesso posto falciava l’erba alta e fiorita del maggese. Le api si buttavano sulle erbe tagliate e distese a terra, frugando tra i fili e le pianticelle per bottinare sui fiori recisi, senza per nulla temere la lama lucente della falce che andava e veniva.
Quello spettacolo lo aveva commosso, perchè pareva che le api gli dicessero: « Vedi? Non bisogna sprecar nulla di quello che viene da Dio». Ma la pioggia raddoppiò di violenza, perciò il contadino dovette correre al riparo.

Nell’alveare era giunto il momento di intaccare le scorte di polline e di miele, perchè la regina aveva ripreso a deporre le uova, indifferente alle variazioni meteorologiche esterne.
Le api bottinatrici, disoccupate, cambiarono lavoro e divennero o nutrici o architetti; ognuna ha sempre in sè il potere di variare occupazione a seconda del bisogno della comunità, dalla più umile, come quella della pulizia, alla più delicata e importante.
Alcune si raggrupparono per riparare le nuove covate, alle quali poteva recare danno l’aria più fredda che entrava nell’arnia. Negli intervalli di brevi schiarite qualche ape sfrecciava via, ma il volo costava fatica. Perchè affrontarlo se le botteghe del nettare e del miele erano chiuse?
Andavano alla cerca di resina sulle conifere per aumentare la scorta di propoli. Con l’umidità aumentava anche il pericolo dei nemici e occorreva tenere pronta la sostanza che avrebbe aiutato a farli prigionieri nell’arnia.
Una di queste volatrici, che si sentiva forte nel corpo e nelle ali, caricò le sue due cestelle quanto più potè di resina prima di rimettersi in volo, ma quando era già prossima ad approdare, le sue forze cedettero e precipitò sull’erba. Incominciò subito a fare dei segnali ad un’ape guardiana, perchè qualcuna andasse a sbarazzarla del suo carico, ma la risposta non venne. Eppure aveva anch’essa il suo trasmettitore telegrafico senza fili tra i due ultimi anelli addominali, una specie di centralino segnalatore detto organo ghiandolare, ma pareva che non sapesse servirsene.
C’era però qualcosa vicino all’ape caduta che si muoveva. Poteva sperare di essere aiutata?
Oh, no! Era un rospo che stava avvicinandosi a lei, beato di potersi muovere fra le erbe inzuppate di acqua. Quando le fu accanto la guardò con i suoi occhi sporgenti.
– Beh, per un’ape col pungiglione non mi scomodo a cacciar fuori la lingua! – e proseguì.
Venne buio e la famiglia delle api si raccolse in silenzio sui favi.

                                       

NEMICI IN VISTA

Ma le guardiane non abbandonarono il loro posto, rimasero accanto all’ingresso a vigilare.
Ad un tratto un volo silenzioso si avvicina alla porta. Le guardiane si mettono in allarme. C’è qualcosa di stranamente insolito che s’affacccia all’apertura: una grossa testa con due antenne piumose e dietro quattro vele larghe delle quali distinguono i colori: nero e giallo; è la sfinge testa di morto, la farfalla notturna nemica degli alveari.
Manifesta subito prepotenza, vuole entrare nell’arnia ad ogni costo. Le guardiane trasmettono i segnali d’allarme e immediatamente scendono dai favi in loro aiuto alcune loro sorelle. Ha inizio la lotta, il nemico è forte e preme. Il profumo del miele che non ha potuto succhiare con la sua lunga proboscide dai fiori a calice corto, la solletica, l’attira. Non sa resistere al desiderio di prenderselo dai serbatoi dei favi.
La lotta si fa accanita, ad ogni spinta della sfinge le guardiane indietreggiano, sguainano le loro armi e pungono, ma pare che il corpo del farfallone notturno sia insensibile ai colpi del loro pungiglione.
Giungono altre api a dare rinforzo alle lottatrici, cercano di arrestare il movimento delle sei zampe del nemico che puntano con forza sul pavimento dell’arnia. Tutte prese da questa lotta non s’accorgono che dal punto opposto dell’ingresso è entrata, indisturbata, una farfalla grigiastra con corpo tozzo piena di uova e ali lanose. In fretta sale in alto e va a collocarsi sul primo favo del nido, il meno popolato di api. Si accomoda ben bene su una celletta e vi rimane annidata godendosi il calduccio dell’angolino appartato.
Ma non perde tempo in godimenti inutili, il profumo che emanano la cera e il miele, il calore dell’ambiente stimolano in lei il bisogno di deporre le uova sul favo; sarà un nido di delizie per i suoi figli che sono golosi di miele e di cera.
Si scava subito un passaggio fra alcune celle vuote e penetra, attraverso il tramezzo, in quelle piene di miele, le fora e ne succhia il contenuto. Poi nelle celle vuote inizia la deposizione delle uova, tante tante…
Tutto ciò è fatto nel massimo silenzio e lontano dall’indaffarato lavoro del gruppo delle guardiane ancora occupate a trattenere sulla porticina la “testa di morto” e a trasportare la resina per arrestare il movimento delle sue zampe: la tignola agisce proprio come un ladro astuto e pericoloso. Finalmente il farfallone notturno è immobilizzato, la sua enorme testa e il dorso con l’immagine di un teschio, vengono staccati e buttati fuori dell’arnia insieme con le ali ridotte a brandelli.
La lotta contro questo pericoloso e forte nemico ha reso le api inquiete e sospettose, quelle incaricate della visita ai fiori devono farsi riconoscere mediante la parola d’ordine che consiste nell’odore del loro corpo da far sentire alle sentinelle, accostando bocca contro bocca. Cessata la lotta, le api vanno a rifocillarsi grattando con le zampine l’opercolo di una celletta piena, giacchè non è più possibile uscire, non soltanto perchè la luce è scarsa, ma perchè piove ancora.

Sul far del mattino le api addette alla pulizia dell’arnia si accorsero che sul pavimento vi erano briciole di cera e si misero a trasportarle fuori. Però, per quanto lavorassero ne trovavano sempre. La cosa le insospettì e incominciò a diffondersi tra le lavoratrici una specie di lamento: era l’avviso che qualcosa di straordinario stava succedendo nell’arnia. Accorsero altre api e si fece una specie di concilio: da dove venivano quelle briciole e chi le faceva? Un’ape no di certo, perchè nessuna aveva mai fatto spreco della cera che costa tanta fatica. Allora dentro la casa s’era nascosto un nemico che stava distruggendo il loro lavoro.
Quel lamento delle api, simile a un ronzio, avvertiva tutte le componenti la famiglia che occorreva vigilare e scoprire chi era penetrato abusivamente nella loro abitazione. Una squadra di api si mise a perlustrare i favi nei punti ove non erano ricoperti dalle loro sorelle. Quando giunsero ove si era collocata la tarma, erano già nati più di venti suoi figli, venti vermiciattoli bianco-giallastri, affamati, che masticavano la cera come biscottini.
Le delicate pareti delle celle venivano via via smantellate dalle loro mandibole, creando voragini nella delicata geometrica costruzione dei grattacieli. La cera, la meravigliosa sostanza che serbava ancora il profumo dei mille e mille fiori che avevano concorso a darle vita, veniva così devastata, corrosa, distruggendo il paziente, prodigioso lavoro delle api. Lo spettacolo che si presentò ai loro occhi, avvezzi alla visione delle celle nella precisa disposizione e misura, le rese per un istante incredule e immobili di fronte a tanta rovina; poi si diedero a chiamare soccorso con tutti i mezzi a loro disposizione: era un piato lamentoso, un accorato richiamo, un allarme di guerra.
A decine, a centinaia accorsero sul favo in cerca del nemico. Videro le larve grassocce penetrare strisciando nelle gallerie e nelle aperture da loro scavate. Si misero ad inseguirle, ma queste, come se fossero state istruite sul modo di non farsi pigliare, riuscivano sempre a nascondersi, entravano nei punti dove le api, avendo le ali, non potevano penetrare se non rimanendovi prigioniere. Dovunque le api, abituate alla rigorosa pulizia, incontravano detriti di cera insudiciata ed escrementi delle larve ben pasciute.
La disperazione prese in breve tempo la famiglia. Che fare? Scappare o rimanere a lottare ancora?
Tre, quattro api vennero incaricate di uscire a perlustrare all’aperto ove, all’occorrenza, avrebbero potuto trasferire la famiglia. La regina continuava adeporre, ma quei vermiciattoli avidi avrebbero ben presto raggiunto anche il centro di tutti i favi, distruggendo la covata.
Fuori l’aria era umida e la minaccia di pioggia incombeva su tutta la campagna. Le eploratrici ritornarono senza buone notizie. Si fermarono sul terrazzino, inquiete, come in attesa di qualcuno che venisse a dare aiuto. Chi poteva darlo? Uno soltanto, Gaspare.
Ma lui era preso dalla preoccupazione dell’erba che giaceva bagnata sui prati e non si mutava in fieno.

Le povere bestiole guardavano gli alberi carichi di mele e di pere e pareva si dicessero: «Li abbiamo aiutati a trasformare i fiori in frutta, perchè nessuno si ricorda di noi?».

Nell’arnia la rovina aumentava di ora in ora, centinaia di api si erano distolte dai consueti indispensabili lavori per aiutare nella lotta di difesa. In un paio di giorni la famiglia già risentiva dello sforzo che stava sostenendo, si era di molto indebolita. E come succede nel mondo umano, quando viene avvertita in qualcuno una certa debolezza e c’è sempre chi ne approfitta nel suo interesse, così in quello delle api, quando per cause involontarie l’ordine, la disciplina e l’operosità consueta vengono disturbate, i nemici si fanno avanti per tentare di trarne profitto.
L’odore della cera lustra di miele, trasportata in briciole all’ingresso si era diffuso all’intorno in modo più intenso del solito, ed ecco comparire alla porticina una squadra di api che volevano ad ogni costo entrare. Le guardiane si fecero loro incontro.
— Siete della famiglia? Dateci la parola d’ordine.
Le api spinsero indietro le guardiane forzando il passaggio: era una squadra di saccheggiatrici, incaricate di rubare il miele per trasportarlo nel loro alveare. Un altro grave pericolo, dunque, incombeva sulla famiglia, se la squadra avesse vinto bisognava avvertire subito la regina per invitarla a fuggire con tutte loro. Già alcune sue damigelle le avevano fatto segnali di avvertimento, una specie di pre-allarme. Infatti, come era possibile resistere nella lotta contro le larve delle tignole, subdole e voraci e, contemporanemante contro le api predatrici?
La famiglia era sempre stata forte perchè numerosa,ma d’un tratto era dovuta scendere duramente in lotta contro la perfidia di due nemici potenti.

GUERRA E PACE

Era finalmente tornato il sole. Gaspare rallegrato, con una nuova speranza in cuore per il suo fieno, si ricordò finalmente delle api e andò a fare una visita all’alveare.
Il terrazzinoo era ingombro di briciole di cera e nei punti ove solitamente era più vivace il transito delle api, c’erano due tracce scure.
Insospettito, Gaspare volle guardare meglio e notò un movimento disordinato, incerto, tumultuoso, continuava ancora la lotta delle portinaie con le saccheggiatrici, tra i detriti dei favi luccicanti di miele. Senza perdere tempo corse al telefono e chiamò l’apicultore. Questi non si fece attendere e giunse portando con sè i soliti arnesi.
Guardò la porticina e si fece serio. Consegnò l’affumicatore a Gaspare raccomandandogli di tenerlo acceso e levò il tetto dell’arnia e poi l’intera soffitta con i telaini piccoli. Sollevò il primo favo, lo guardò: un disastro! Cavità dovunque: distrutte le celle e qui e là rannicchiate le grosse larve che tentavano di nascondersi fra i rottami di cera. Con una pinza ne afferrò una che tentò di divincolarsi per fuggire. Gaspare inorridì e si calò la falda del cappello sugli occhi per non vedere.
L’esperto non rimise dentro il telaino, ma lo collocò in disparte, doveva essere bruciato con tutto il suo contenuto. Ne tolse un secondo: questo era stato appena intaccato dalle tarme. Li esaminò tutti ad uno ad uno, fortunatamente le larve della tignola non avevano fatto in tempo a trasformarsi in crisalidi e quindi in farfalle per invadere tutto l’alveare.
Mentre stava lavorando, la squadra delle predatrici impaurite dall’abbondante fumo che si spandeva intorno, decisero improvvisamnete di abbandonare la lotta e si ritirarono senza aver assaggiato una sola goccia del miele che volevano trasportare nel loro alveare.
Il lavoro di revisione e di pulizia dell’arnia infestata durò a lungo. A Gaspare giungeva il muggito dei buoi che dalla stalla reclamavano il consueto pasto di fieno, ma non si mosse. Lo spettacolo della distruzione delle celle e quello disgustoso dei bruchi lo avevano molto impressionato e tra sè si era detto: «È anche colpa mia se è accaduto questo, dovevo venire qui più spesso».
Finito il riassetto dell’arnia e ripulito con una morbisa spazzola il predellino, l’esperto disse a Gaspare:
— Le avete mal ricompensate queste bestiole del beneficio che esse hanno recato al vostro frutteto. Perchè non avvertirmi prima?
— È stato il cattivo tempo!
— Sì, è vero, ma proprio per questo dovevate vigilare. Per quest’anno niente miele, mio caro! Quello che è rimasto deve essere lasciato a disposizione delle api per il prossimo inverno.
Gaspare rimase male, ma in cuor suo pensò che la punizione era giusta e che alla fine era meglio perdere il miele, anzichè la famiglia delle api.
Queste ripresero subito a lavorare con la medesima voglia delle giornate buone. Il sole ne richiamò fuori parecchie promettendo nuovo bottino. Ritornò dunque l’ordine nell’interno dell’arnia e con l’ordine gli agglomeramenti che sviluppano il calore necessario per produrre la cera. Vi era un favo nuovo da costruire, quello del telaino con il foglio cereo inserito dall’apicultore al posto di quello distrutto dalle tarme.
Un canto nuovo, sommesso, intelligibile soltanto dalle antenne delle api si diffonde nell’arnia: è un inno di gioia, un desiderio di operosità, di vita nuova, assai diverso dal gemito della lotta, dell’odio, della guerra all’egoismo dei predoni.
Come onda di vittoria la melodia si diffonde in tutto l’alveare, dalle celle del miele e della covata al sacrario della regina.
La misteriosa potenza del loro istinto poteva nuovamente manifestarsi realizzando, come sempre, uno dei fatti più importanti della natura, quello della fecondazione dei fiori e quello altrettanto sorprendente della trasformazione, per opera della loro attività e della loro digestione, di elementi del regno vegetale in preziose sostanze organiche : polline e nettare in miele e cera.

“Vita segreta dell’alveare” è un racconto di Pierina Boranga
tratto dal libro: Città del prato
AA.VV. C.E.Giunti – Bemporad Marzocco – Terza edizione, 1967

*Le immagini sono prese dal web