Ai fini di un sano sviluppo della capacità di stabilire validi rapporti con gli altri, è importante che il bambino abbia accanto a sè la presenza di una figura affettuosa, pronta a soddisfare i suoi bisogni fondamentali; ma è anche indispensabile l’identificazione con l’altro ai fini di ogni suo desiderio di miglioramento, sia esso nel settore delle conoscenze che dell’abilità.

Il linguaggio è un comportamento sociale per eccellenza, la più alta forma di comunicazione in quanto permette di scambiare informazioni in forma altamente simbolica e quindi con il massimo di economia e insieme con il massimo di significatività.

L’evoluzione di tutte quelle manifestazioni sociali implicate nel rapporto con i coetanei, con i gruppi, con gli adulti avviene per tappe durante l’età evolutiva.

Dalla nascita all’età scolastica

La prima grande esperienza sociale del bambino avviene con la figura che si prende cura di lui, ed è alla base dello sviluppo della personalità dell’uomo.
Il sorriso del terzo mese e l’angoscia dell’ottavo mese possono essere considerati come le prime reazioni di tipo sociale, in quanto sono legate alla percezione dell’altro e al modo di percepirlo.

Per sorriso del terzo mese si intende quella particolare reazione che il bambino presenta nel corso del terzo mese di vita di fronte a qualsiasi configurazione che assomigli sia pure vagamente a un volto umano.

Per angoscia dell’ottavo mese ci si riferisce al fatto che il bambino intorno a questa età spesso si spaventa e piange di fronte ai volti di estranei o anche di famigliari che si presentino con qualche particolare insolito rispetto al modo consueto con cui il bambino è abituato a vederli.

Riguardo alle manifestazioni del bambino quando è in rapporto con i coetanei, è stato osservato che fino a circa 8 mesi due bambini della stessa età, posti vicini a giocare, tendono a ignorarsi giocando ognuno per conto proprio. Al massimo l’attenzione rivolta all’altro è la stessa che viene rivolta a un giocattolo: lo afferra, lo guarda, gli sorride…
Nei mesi successivi “l’altro” sembra acquistare una particolare fisionomia e diventa oggetto di protesta  se prende un giocattolo che il bambino desiderava in quel momento.
Occorre invece circa un anno e mezzo  perchè si possa cominciare a osservare delle prime relazioni sociali in senso collaborativo, anche se fino a due anni il gioco e l’agire rimangono sostanzialmente paralleli.
Bisogna però giungere all’età dell’ingresso nella scuola dell’infanzia per poter cogliere una vera evoluzione del comportamento sociale, anche nel confronto dei coetanei.
Si potrebbe dire quindi che il comportamento del bambino di fronte al coetaneo non è inizialmente diverso da quello che assume nel confronto degli oggetti.
Ugualmente, come il bambino sperimenta inizialmente l’altro con modalità soprattutto motorie, quasi volesse saggiarne le qualità sensoriali (tocca, stringe, morde, esplora) successivamente, quando ne è capace, lo sottopone a stimolazioni verbali.

Da ciò emerge che i bambini fino alla soglia dell’età prescolastica non hanno ancora nettamente differenziato il mondo degli oggetti da quello umano “fuori da sè”: così accade che il bambino pianga per ottenere dall’adulto l’oggetto che vede usare da un coetaneo, per poi rifiutarlo appena ottenuto in quanto non sufficiente a soddisfare il suo desiderio, che era non tanto di quel particolare balocco, ma piuttosto del balocco “attivo”, che è l’insieme dell’oggetto inanimato e del soggetto che lo anima, cioè di due elementi distinti che per lui appartengono però ugualmente al mondo “fuori di sè”.
Anche “l’altro” è quindi un elemento che che deve differenziarsi fra le altre cose del mondo, che deve emergere, rendersi figura, con le sue caratteristiche peculiari, rispetto allo sfondo ambientale di cui fa parte.

In seguito a ciò si realizzeranno le prime identificazioni extrafamigliari che, entrando in conflitto con il bisogno di autoaffermazione, porteranno facilmente ad assumere a livello comportamentale nuovi atteggiamenti contraddittori: da una parte la sudditanza al coetaneo più attivo, più vivace, dall’altra il tentativo di sottoporre altri ad analoga sudditanza o l’improvviso rifiuto dell’altro.
Si dice infatti che fra i 2 e i 4 anni il bambino è impegnato in un qualche litigio ogni cinque minuti circa. Le manifestazioni di aggressività vanno dalla spinta al pizzicotto, alla derisione, dal morso alla costrizione, dall’interferenza nel lavoro altrui al suo impedimento totale.

Il rapporto sociale, più di ogni altro fonte di gratificazioni e frustrazioni, sta ora faticosamente cercando una sua modalità di espressione.
SUSAN ISAACS, una psicoanalista che si è particolarmente occupata dello sviluppo sociale nell’età evolutiva, indica un progredire della socialità attraverso tre comportamenti successivi nel tempo:

  1. l’atteggiamento egocentrico primario
  2. ostilità e aggressività
  3. atteggiamento amichevole e cooperativo.

Secondo PIAGET il bambino fino all’età di circa 7-8 anni è in piena fase egocentrica, intendendo per egocentrismo quel particolare stato di confusione fra soggetto e oggetto.
Così il linguaggio, è prevalentemente egocentrico fino ai 6 anni e consiste in semplici ripetizioni di sillabe e monologhi con maggiore o minore riferimento agli altri presenti nella stanza, delle cui reazioni però non si cura. Mentre successivamente attua scambi di informazione ed osservazioni sulla condotta dei compagni.

Secondo PIAGET il bambino dai quattro ai sette anni attraversa tre momenti essenziali, in cui dapprima parla all’altro senza collaborare con lui, per farlo partecipare a quanto pensa, poi riesce a collaborare sul piano concreto ed infine su quello più astratto. Così come nella disputa: da prima egli si oppone con azioni, poi con parole, poi con motivazioni vere e proprie.

In questa evoluzione il comportamento degli adulti che circondano il bambino (in particolare i genitori e gli insegnanti), i loro interventi più o meno favorevoli ai rapporti sociali, possono giocare un ruolo molto importante per facilitare e rendere gratificanti al bambino i primi rapporti con l’altro e quindi per interessarlo ad adeguare il suo comportamento a tali rapporti.

Età scolastica: dai 7 agli 11 anni

Dai sei anni sembra quindi che il bambino abbia già sperimentato il rapporto con gli altri e cominci ad essere capace di collaborazione. Il bambino può ora propendersi verso il gruppo, la sua “banda”, che diventa ora la sede delle sue manifestazioni più vivaci. Naturalmente anche l’ingresso alla scuola favorisce tutto ciò, il bambino è ora libero per questa nuova dimensione, quella sociale, della sua vita.
I suoi giochi assumono sempre più l’aspetto di comportamenti soggetti a delle regole. I compagni sono ora indispensabili. Il processo di identificazione che prima sembrava esaurirsi nell’ambito strettamente famigliare tende così ora a estendersi anche al mondo dei coetanei.

Sorge la consapevolezza del sè che permette una maggiore conoscenza del fuori di sè, come distinto dal sè. Ciò implica l’assunzione di comportamenti che tengono conto non solo di quanto può derivare a se stessi, ma anche delle ripercussioni che possono aversi sugli altri.
Il risultato di una ricerca di ADA FONZI, comprovato da altre ricerche, ha dimostrato che con l’aumentare dell’età aumentano progressivamente le risposte socializzate. Vi è quindi non solo il passaggio a una maggior socializzazione, ma soprattutto l’aumento progressivo delle capacità di partecipazione e di identificazione con l’altro, che è necessaria perchè la socializzazione diventi un passo compiuto.

Il bambino percepisce l’altro come interlocutore che può avere punti di vista diversi dal suo, e per comprenderlo necessita di avere un certo numero di informazioni.
Alla fine della scuola primaria il ragazzo sarà ormai capace di stabilire dei rapporti sociali con i coetanei non solo sul piano dell’attività pratica, ma anche a livello di pensiero.

Preadolescenza e adolescenza: dagli 11 ai 18 anni

Il preadolescente vive in una situazione di marginalità, in questo caso, sociale, in quanto vive ancora nel gruppo dei ragazzi e sta contemporaneamente tentando di entrare in quello degli adulti, senza appartenere quindi realmente nè a l’uno nè all’altro.
La sua identità sociale è ora estremamente fluttuante ed il suo comportamento nei confronti degli altri è dominato dall’insicurezza. Al ragazzo si aprono ora due possibilità per uscire da tale situazione di disagio: farsi un “amico” o entrare a far parte di un “gruppo”.
Assistiamo così in questo periodo alla nascita di quelle profonde amicizie per cui due ragazzi, o due ragazze, della stessa età e dello stesso sesso diventano inseparabili. Il bisogno di amicizia è avvertito dalla stragrande maggioranza degli adolescenti.
Il preadolescente trova sicurezza nell’altro non solo in quanto con lui fa gruppo, lo toglie dal suo sentimento di solitudine tra i bambini che egli respinge e gli adulti che non l’accettano ancora; ma anche in quanto, attraverso le sue critiche, le sua approvazioni, egli viene meglio conoscendo se stesso e gli aspetti della sua personalità su cui può fare meglio leva (le reazioni dell’amico gli fanno da specchio, nel quale guardarsi per conoscersi e migliorare) e infine in quanto l’amico può diventare quel modello, non più infantile, non ancora adulto, al quale ispirarsi.

Mentre negli anni precedenti il gruppo serviva per giocare, per agire, ora esso è diventato soprattutto l’ambito naturale nel quale trovare sicurezza e ritrovare quella fiducia in se stessi che il particolare momento di transizione psicologica ha reso alquanto precaria.

L’INDIVIDUO E LA SOCIETÀ

Tutti gli esseri umani nascono e vivono in una società, ed è quindi ovvio che l’ambiente sociale rappresenti una parte di grande rilievo del mondo al quale l’uomo reagisce e nel quale agisce.
L’uomo con i suoi problemi, i suoi bisogni, i suoi sentimenti, la sua personalità, è in parte il prodotto di questo ambiente sociale, e stabilisce in esso i rapporti più o meno significativi.

L’individuo nel gruppo

Se si prende in considerazione il comportamento sociale a livello dell’individuo, si è colpiti da due fenomeni di particolare interesse: la percezione sociale e gli atteggiamenti sociali.

LA PERCEZIONE SOCIALE 

È il modo in cui l’individuo percepisce e valuta gli altri individui con i quali è in rapporto.
Quando incontriamo una persona per la prima volta formuliamo, anche senza volere, un giudizio complessivo su di essa giungendo a quella “prima impressione” che influenzerà in modo notevole il nostro comportamento nei suoi confronti. Tendiamo così a giudicare la personalità, le capacità, le emozioni o le intenzioni degli altri basandoci sulla loro fisionomia, sul loro modo di agire, di vestire, di parlare, e così via, o sulle espressioni del volto. Questa prima impressione può essere molto diversa da individuo a individuo, e non di rado si assiste al fatto che una medesima persona può venire giudicata in modo completamente opposto da due altre persone.

Gli individui, inoltre non sono quasi mai percepiti come unità isolate, ma facenti parte di un gruppo più vasto, di un certo contesto: la personalità che noi percepiamo, quindi, dipende anche da ciò che pensiamo di quel determinato gruppo al quale esso appartiene. Abbiamo un’infinità di gruppi (i meridionali, i cattolici, i contadini, gli ebrei, i comunisti, i tedeschi, ecc.) per ognuno dei quali possediamo un modello mentale (o un pregiudizio) che ci “aiuta” nella nostra valutazione: “meridionale” molto spesso è associato a “socievole”, ed appena sentiamo che una persona mai vista prima, parla con accento meridionale subito concludiamo che ha un carattere socievole; se poi riscontriamo che invece è una persona scontrosa e taciturna, sosterremo che è “l’eccezione che conferma la regola”, ma i meridionali resteranno sempre socievoli.

GLI ATTEGGIAMENTI SOCIALI

Un atteggiamento è un insieme di concetti, di credenze, di emozioni, di abitudini e di atti che sono associati ad un particolare oggetto.
Un certo individuo di fronte a un determinato gruppo sociale può avere una disposizione mentale (= concetti e credenze) poco favorevole, in presenza del quale può sentirsi a disagio o avere un senso di paura (= emozioni), può esprimere una sua opinione in termini aggressivi, o allontanarlo con maniere brusche (= abitudini ed atti): questo è un atteggiamento negativo.
Lo stesso individuo di fronte, ad esempio, a un partito politico può provare delle chiare simpatie, sentirsi garantito e difeso nei suoi interessi, fargli una certa propaganda e dargli regolarmente il voto: questo è un atteggiamento positivo.
Lo sviluppo di determinati atteggiamenti rispecchia l’azione di determinanti personali, famigliari e sociali. Atteggiamenti che possono subire dei mutamenti, che si possono verificare in vari modi: ad esempio cambiando gruppo sociale e trovando degli atteggiamenti nuovi che vengono fatti propri, oppure è l’oggetto stesso a cambiare. Tuttavia, la causa più importante che fa mutare gli atteggiamenti è il mutare dell’informazione sul relativo oggetto.
Per riuscire a comprendere e valutare le varie cose del mondo, facciamo riferimento in gran parte a quanto ci dicono alcuni “esperti”: per il bambino sono i genitori e i bambini più grandi; per lo studente è l’insegnante; per chi è religioso sono i ministri del culto; e per tutti sono gli scienziati, i giornalisti, i redattori della radio e della televisione, gli specialisti della pubblicità e della propaganda, gli sceneggiatori e i registi, i politici, i medici, gli avvocati, ecc.
Ciascuno di noi può fungere da “esperto” per qualcun altro e ciascuno di noi, quindi, può avere un certo peso nel fare mutare gli atteggiamenti degli altri a seconda che mutino i nostri atteggiamenti.

Informazione e atteggiamento sociale

I giornali occupano una posizione di enorme importanza nello sviluppo e nel mutamento degli atteggiamenti. Il modo in cui essi presentano le notizie (sia che le mettano in risalto o le nascondano), il linguaggio emotivo che usano nel presentarle e la tendenziosità con cui le manipolano, sono tutti fattori più importanti di un intero articolo scritto appositamente per influenzare l’opinione pubblica. Il peso delle parole scelte è noto a chiunque: quelli che per alcuni sono “crumiri” per altri sono “lavoratori liberi”, la “selvaggia repressione della polizia” di certi giornali è l’ “opportuno intervento della forza pubblica” di altri, la “sana vitalità dei giovani italiani” diventa, in giornali diversi, una “ignobile gazzarra fascista”, mentre la “fuga del nemico” può venire propinata come un “ripiegamento su posizioni migliori”.

 

Il gruppo 

Parliamo di gruppo quando c’è un insieme organizzato di persone che si influenzano reciprocamente.
Le azioni di ciascun componente influenzano le azioni degli altri, tutti sono organizzati e mirano ad uno scopo ben preciso, come avviene ad esempio nella famiglia, in un gruppo di lavoro, in una squadra di calcio.
Anche il gruppo ha degli effetti speciali sul comportamento della persona che vive in esso.
La qualità di un gruppo è indicata non solo dal tipo dei rapporti esistenti tra i suoi vari membri, ma anche dalla sua efficienza nell’affrontare e nel risolvere i problemi. Il gruppo si dimostra più efficiente del singolo individuo quando il problema è divisibile in tanti problemi secondari che possono venire distribuiti ai vari membri.
Riguardo alla psicologia del gruppo argomenti di particolare importanza sono: il prestigio e il comando, ed il conformismo.

IL PRESTIGIO E IL COMANDO DEL GRUPPO (leader)

Uno degli aspetti più palesi del comportamento del gruppo è che alcune persone  possono emergere, generando negli altri un senso di ammirazione per qualche loro caratteristica, acquisendo una posizione di prestigio rispetto agli altri. Ciò può portare a delle importanti conseguenze relative all’influenza che possono esercitare sugli altri membri del gruppo.
È questo il ruolo del leader, il quale, sia esso stato eletto dagli altri o sia emerso di propria iniziativa, diventa il capo ed esercita il comando, che può essere definito come il processo  con cui si influenzano le attività di un gruppo relativamente alla formulazione e al raggiungimento degli obiettivi. Egli riveste ruoli diversi, in tempi diversi, a seconda della natura del gruppo.
Funzioni e responsabilità del leader emergono in modo più incisivo in gruppi stabili e ben strutturati come può essere un partito politico.

IL CONFORMISMO

Quando una persona non si adatta alle regole del gruppo, o viene escluso, oppure subisce l’influenza e le pressioni del gruppo affinchè accetti le sue norme. Apprende così a modellare, conformare il proprio comportamento su quello degli altri membri, ad adeguarsi in modo passivo, tende a uniformarsi.
Si può affermare che in genere, una persona si conforma alle norme di quei gruppi in cui desidera venire accettata, mentre non si conforma, dimostrando anche la sua ribellione, alle norme di quei gruppi che non trova abbastanza soddisfacenti. Dato che tutti gli uomini desiderano essere accettati in almeno un gruppo, ne consegue che tutti saranno conformisti, anche se solo di fronte alle norme di quel gruppo particolare: il non conformismo a un modello può semplicemente implicare il conformismo ad un altro modello o, per dirla con THOREAU, «colui che appare anticonformista non è che uno il quale segue una bandiera diversa dalla nostra».

LA SOCIALIZZAZIONE È L’EVOLUZIONE DEL COMPORTAMENTO SOCIALE

Nessun essere umano nasce sociale, ma lo diventa. L’uomo ha un’acquisizione filogenetica, cioè una predisposizione ad unirsi agli altri (in tribù, villaggi…). Sia quando è nomade che quando è stabile, l’uomo non è mai solo.
Se in molti casi il gruppo può aiutare e appoggiare l’individuo in difficoltà, è altrettanto vero che può essere fonte di frustrazione inibendo la creatività e impedendo all’individuo di prendere decisioni libere e originali.
Ciò nonostante dobbiamo accettare anche queste limitazioni. Aristotele ha definito l’uomo “animale politico” riferendosi, appunto, al fatto che la vita umana si svolge in gran parte nell’ambito di gruppi, ed “animale politico” egli deve rimanere in qualunque circostanza. Ciò che occorre capire è come dare a ciascuno la massima libertà di scelta e l’esercizio della creatività individuale pur rimanendo membro integrato del gruppo.
«Il problema centrale al quale deve mirare lo studio dell’uomo — affermano due noti psicologi sociali, KRECH e CRUTCHFIELD, — è come far sì che esso riesca a rimanere un individuo nella società».


Testo di riferimento: Psicologia di Mario Farnè, Giuliana Giovanelli – Signorelli, Milano 1970