Il 10 luglio 1976 una nube tossica contenente elevate quantità di diossina investì una vasta area di terreni della bassa Brianza, particolarmente quello di Seveso, sprigionatasi in seguito ad un incidente verificatosi presso gli impianti chimici della società elvetica ICMESA, appartenente al gruppo Givaudan-La Roche sito nel territorio del comune di Meda, al confine con quello di Seveso.
Le prime avvisaglie furono un odore acre e infiammazioni agli occhi, molte persone vennero colpite da eruzioni cutanee, defogliazione delle piante e moria di piccoli animali domestici. Una parte consistente degli abitanti dell’area fu evacuata, ma la popolazione  venne però informata della gravità dell’evento solamente otto giorni dopo la fuoriuscita della nube.
L’ICMESA fu smantellata e nella zona di contaminazione cosiddetta “A”, la più colpita dalla nube, vennero create due vasche di contenimento per i materiali contaminati e i rifiuti tossico nocivi asportati durante la bonifica della zona. Al di sopra di esse poi sorse il Parco Naturale Bosco delle Querce, area verde da alcuni anni aperta al pubblico.
Per questo incidente il nome di Seveso è legato alla direttiva europea 96/82/CE, che impone il censimento di tutti i siti industriali ad alto rischio.

La scarsa conoscenza e la sottovalutazione dei rischi derivanti dalla presenza di insediamenti produttivi da una parte e la successiva crescente attenzione alla tutela e salvaguardia dell’ambiente e alla qualità della vita degli individui dall’altra, posero la problematica del rischio industriale al centro del dibattito dell’opinione pubblica italiana ed europea.
L’incidente di Seveso indusse i Paesi aderenti alla Comunità Europea a dotarsi di una normativa diretta a prevenire gli incidenti industriali.
Nel 1982 venne emanata la direttiva comunitaria n. 82/501, nota come direttiva Seveso. L’Italia recepì tale direttiva sei anni più tardi con il DPR 175/88 alla quale fece seguito una seconda Direttiva finalizzata alla protezione dell’ambiente.

(ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale)

Ne nacque una faccenda assai controversa sul fatto che la diossina poteva comportare gravi difetti congeniti sui feti e sulla necessità di ricorrere all’aborto, ma in Italia era vietato e non prevedeva alcuna deroga in simili casi.
Ne conseguì che il 7 agosto 1976 fu emessa un’autorizzazione da parte dei due esponenti democristiani, l’allora Ministro della sanità Luciano Dal Falco e quello della giustizia Francesco Paolo Bonifacio, ottenuto il consenso del Presidente del consiglio Giulio Andreotti, con cui si consentiva l’aborto terapeutico per le donne della zona che ne avessero fatto richiesta. I successivi controlli eseguiti a Lubecca (Germania) non poterono stabilire nulla di certo, altre donne portarono a termine le loro gravidanze senza problemi, i loro figli non mostrarono segni di malformazioni evidenti. Tuttora gli effetti a lungo termine sulla salute generale dovuti alla contaminazione da diossina, sono ancora oggetto di studi.
All’epoca uniche voci importanti di dissenso furono Il Giornale di Indro Montanelli che scrisse: «Il rischio è per i bambini, non per la madre: si tratta di aborto eugenetico, e non terapeutico» e il cardinale di Milano, Giovanni Colombo, che disse: «Non uccidete i vostri figli, le famiglie cattoliche sono pronte a prendersi cura di eventuali bambini handicappati». Il dramma vissuto da queste donne e dalle loro famiglie finì per acuire il dibattito sulla necessità di regolamentare l’aborto attraverso leggi dello Stato, su cui da anni l’opinione pubblica era impegnata. Si arrivò pertanto all’emanazione della Legge 194 del 22 maggio 1978, confermata poi dal referendum del 1981.

Era il dieci luglio
di una terra senza colpa,
bambini nei giardini
giocavano nel sole
e l’aria era di casa,
di sugo e di fatica
e vecchi nella piazza
parlavano d’amore
e donne al davanzale
lanciavano parole

Canzone per Seveso – Antonello Venditti (1976)