Pezzo da novanta

Pezzo da novanta
di Giuseppe Bufalari
Genere: narrativa, storico
Editore: Salani, 1971

Pezzo da novanta è il racconto-documento di uno dei fenomeni più tragici e desolanti del nostro Paese, la mafia.
Muovendo dalle origini – i primi dell’Ottocento – e dalle condizioni della Sicilia negli anni del latifondismo e della grande proprietà terriera, l’autore giunge fino ai nostri giorni, alla banda Giuliano, alla morte di Enrico Mattei, al sequestro del giornalista De Mauro, altrettante vicende che denotano il crescente radicarsi del potere mafioso nelle nuove strutture politiche ed economiche.
Secondo una prospettiva di rigoroso realismo, Giuseppe Bufalari fonde insieme la componente narrativa (si tratta di episodi che obbediscono sempre a precisi criteri di significatività ed esemplarità) e il repertorio di documenti che della storia della mafia forniscono il contesto e le ragioni.
Ciò che risulta è non solo un libro di avvincente lettura, ma un’opera di grande intensità morale e civile, uno strumento di conoscenza e comprensione indispensabile ai giovani e ai loro educatori.

Giuseppe Bufalari è nato a Firenze nel 1927. Insegnante elementare in provincia di Potenza, poi a Porto Ercole, sul mare. Da queste esperienze nascono i primi libri: La masseria (1960, editore Lerici) tradotto in molte lingue e La barca gialla (1966, Editore Einaudi) che ha avuto il Premio internazionale Andersen per il miglior libro italiano per la gioventù. Ha scritto altri libri pubblicati da vari editori.
Ha vinto vari premi letterari ed è stato insignito con la medaglia d’oro del presidente della Repubblica nel 1964.
Bufalari vive attualmente a Firenze.

Quest’opera di Giuseppe Bufalari ci porta nel vivo di un problema tragico e umiliante che affligge il nostro Paese e altre parti del mondo dove esistono grosse colonie di italiani: la mafia. L’autore tratta il suo pubblico di giovani con tutta franchezza senza nulla di quella condiscendenza che così spesso si rinviene in opere che dovrebbero servire a uno scopo didattico.
La descrizione e l’acuta interpretazione storica ed economica del fenomeno della mafia seguono una linea apparentemente spezzata o meglio parecchie linee che si intersecano.

La mafia è un fenomeno attuale: nelle prime “notizie lampo”, la vediamo impegnata nel traffico della droga, nella speculazione edilizia, nell’agricoltura, nella pesca, nonchè in quella sua attività sussidiaria e collaterale che è l’omicidio.
Le sue origini: la ricca e mossa ricostruzione di Bufalari ci rivela come la vecchia classe dirigente siciliana già in epoca lontana abbia rinunciato a ogni attività economica, persino al mero controllo parassitario delle proprie rendite, e si sia affidata a un proprio corpo di “polizia”, bande armate di delinquenti incaricati di taglieggiare e spremere in ogni modo i contadini dei latifondi. In quella società a piramide il governo si trovava naturalmente assai più vicino ai latifondisti che non ai contadini; e la polizia ufficiale, quella in divisa, non si trovò mai in fondamentale contrasto con la mafia. Questa spesso ha collaborato con le forze dell’ordine dei vari governi succedutisi in Sicilia, garantendo la cattura o l’uccisione dei piccoli fuorilegge “non inquadrati”, come gli scassapagghiari o i banditi tradizionali.

Nella seconda metà del secolo scorso, la mafia si fa avanti, ormai come nuova classe dirigente, e non più come braccio secolare della vecchia aristocrazia: la nuova Italia ha un Parlamento, e la mafia vi manda i suoi deputati che si schiereranno sempre e in ogni occasione col governo in carica. I contadini, che non hanno tratto alcun vantaggio dalla caduta del governo borbonico, chiedono le terre si ribellano: la mafia collabora volonterosamente alla sanguinosa repressione del governo italiano.
Mafia e governo non sono alleati occasionali: a Villalba, nel 1900, viene eletto un sindaco repubblicano, non gradito al ministero degli Interni; la sua elezione viene arbitrariamente invalidata e si installa un candidato di fiducia, creando una solida tradizione mafiosa.

Il governo parlamentare si trasforma in governo fascista: i siciliani sono minacciati da due forme di terrorismo autoritario, che sembrano trovarsi in concorrenza tra loro. I deputati di paglia, gli “ascari” di Giolitti non servono più; la mafia vorrebbe fornire gerarchi al nuovo regime, ma esso decide di fare a meno dell’aiuto dell’onorata società; la vecchia aristocrazia terriera saluta con sollievo l’arrivo del prefetto-questurino con poteri speciali Cesare Mori, sperando di affrancarsi dall’esosa e pericolosa protezione della mafia. Per la massa dei siciliani la durissima repressione di Mori significava, nel migliore dei casi, la restaurazione del potere del vecchio padronato, nel peggiore una persecuzione vasta e indiscriminata, spesso senza nessun rispetto della legalità. Quando poi Mori volle colpire quel settore della mafia che per livello sociale o per varie benemerenze era riuscito a inserirsi comodamente nel fascismo, fu liquidato. Il ventennio fascista vedeva allora la mafia attestarsi sulle posizioni più antiche e sicure, sulle attività tradizionali e radicate nella vecchia società feudale, agricola e pastorale: esazione delle gabelle, taglieggiamento dei pastori, furto del bestiame e – unico tocco di modernità – la relativa industria alimentare delle carni insaccate.

Ma la mafia doveva rifiorire e raggiungere una alto grado di splendore grazie anche alla sua giovane e vigorosa radice americana: nel luglio del 1943, don Calò – cui Bufalari dedica una delle pagine più immaginose ed efficaci del libro –  tratta direttamente con l’esercito americano, tutto pullulante di gangster di origine italiana, già utilizzati dal governo degli Stati Uniti contro lo spionaggio tedesco. Le altre linfe che nutrirono la mala pianta della mafia, provennero dalla vecchia classe dirigente – ora separatista, per timore di una svolta democratica in Italia – e dallo stesso Stato italiano, che, come sempre, tra i due mali, il progresso e la mafia, sceglieva la mafia. Don Calò, soddisfatto della sua opera, poteva morire in pace, ricco e stimato. La mafia era diventata ancora una volta una classe dirigente a pieno diritto, che uccideva o rapiva i latifondisti, trattava alla pari con vescovi, poliziotti, uomini di governo, assassinava sindacalisti da un lato e banditi ottocenteschi, tipo Giuliano, dall’altro, regalandone i cadaveri alle forze dell’ordine.

Bufalari descrive assai bene il terrore muto di coloro che non scrivono, che non hanno amici giornalisti, non hanno soldi per pagare riscatti, che non “fanno titolo”, insomma; a differenza dei Commissari, Direttori d’ospedale, Procuratori della Repubblica, che dall’aldilà prima di vedere regolarmente archiviato il loro caso, godono almeno della meritata pubblicità.
L’ultima parte del libro tratta della nuova mafia, legatasi tempestivamente allo sviluppo industriale dell’isola e dedita al traffico della droga, praticato con grande profitto e con una certa tranquillità, garantita dalle vecchie immunità e franchigie conquistate con la collaborazione allo sforzo bellico negli anni Quaranta. Questa mafia ha fatto giustizia – a modo suo – della vecchia mafia essenzialmente agricola, che non intendeva passare le consegne; ha consolidato ulteriormente i rapporti con la mafia americana, imbarcandosi in affari e imprese omicide di livello internazionale; si compiace di elargire pubblicamente il suo appoggio ai candidati alla presidenza del Paese più potente del mondo. E un’ultima girandola di nuovi, recenti omicidi conclude l’opera di Bufalari.

Tratto dall’introduzione del libro di Romano Mastromattei


Notizie e documenti (dal libro)

Sull’origine della mafia

«… quest’istituzione risale all’epoca feudale, quando il barone il proprietario, per difendere dai poveri la propria roba, erano obbligati a tenere al loro soldo delle squadre di facinorosi, i quali proteggevano il castello e la masseria a patto d’esser difesi contro le autorità per tutti i delitti e le ruberie che commettevano sulla popolazione.
In questo stato di cose il Governo non aveva nessun mezzo per soggiogare questi facinorosi, che vivevano e prosperavano all’ombra dello stesso feudatario…»
Da questi facinorosi ebbe poi origine la mafia. Chi ha detenuto il potere si è sempre servito di lei, a partire dal 1812, quando la Costituzione del Regno di Sicilia tentò d’eliminare le prerogative feudali e ci furono lotte delle quali un cronista disse: «non può farsene rimembranza senza versare lacrime…»

Vendetta per baronia offesa

«…il 27 e il 28 agosto 1820 al grido di Viva santa Rosalia i picciotti del barone assaltarono il Comune di Polizzi Generosa, che aveva rivendicato i diritti sulle terre.
In Comune quel giorno c’erano gli amministratori; i picciotti uccisero don Gandolfo e i figli Giuseppe, Michele, e Andrea. Quest’ultimo era amministratore del patrimonio civico.
La sera furono accesi fuochi per la campagna perchè tutti i contadini li vedessero e sapessero riconoscere qual era la sola vera legge della Sicilia. Per due giorni le teste degli uccisi furono esposte davanti al carcere. Il terzo in piazza le teste furono messe in una caldaia e cotte nell’aceto, poste quindi ad essiccare tra le zucche al sole d’agosto.
Quando dopo alcuni giorni la polizia intervenne il colonnello Costa fece arrestare gli assassini ma appena tradotti a Collesano per un alto intervento furono rilasciati. Se ne andarono liberi, alcuni amici si erano impegnati a riconsegnarli ad eventuale richiesta.
Il che non avvenne mai…».

Una nuova classe dirigente: i gabelloti

Il delegato Vannozzo
al capo della polizia del Regno delle Due Sicilie in Napoli:

Credo dovere avvisare V.Ecc. che tra il 1812 e il 1850 in questi facinorosi che aiutarono nel ’48 i proprietari a esercitare pressioni sul Parlamento per schiacciare il movimento contadino è nato uno spirito nuovo che taluni chiamano spirito di mafiosità: il permettersi delitti contro chiunque perchè sanno di restare impuniti.
Questi mafiosi costringono all’omertà le popolazioni le quali per conseguenza non temono più le leggi del Regno ma solo quelle della mafia. Hanno l’appoggio dei nobili, vengono chiamati uomini di rispetto. I loro capi sono detti pezzi da novanta…
Sono diventati così potenti e terribili che, essendo affittuari dei baroni, cioè gabelloti, comprano poi per sè la proprietà e vanno ad affiancarsi ai nobili formando una nuova casse sociale.
E solo appoggiandosivalla terribile legge della mafia queste classi dirigenti sono riuscite a debellare i contadini che volevano le riforme…

La fine di un traditore

Verbale del tenente Ippolito Giglio, in Monreale, dopo la morte di Salvatore D’Amico:

«…il D’Amico era venuto in caserma e aveva detto di volersi vendicare perchè la mafia gli aveva ucciso due figli ed un fratello. Aveva fatto alcune dichiarazioni, indicando i nomi e i luoghi dove poi abbiamo scoperto i corpi di alcuni affiliati uccisi, dei quali da tempo mancavano tracce.  Alla fine ci aveva detto queste testuali parole: – Sarò ammazzato dalla mafia, nè voi con la vostra autorità nè tutta la polizia italiana riuscirete a salvarmi.
Nonostante lo stretto servizio di vigilanza dopo undici giorni D’Amico è stato trovato crivellato da colpi di lupara. Aveva un tappo in bocca. Nel linguaggio della mafia questo vuol dire che da una bocca che ha parlato non deve uscire più nemmeno la puzza.
D’Amico ci aveva detto il nome del mandante del suo presunto futuro assassinio, quello di un onorevole deputato della circoscrizione, che è anche capomafia. Chiedo pertanto autorizzazione a svolgere riservate indagini…».

Brogli elettorali

«…In Partinico i picciotti sono passati di casa in casa avvertendo le famiglie di votare per il candidato amico.
– Sulla scheda che vi danno ci sarà un segnale e sapremo subito come avrete votato – hanno detto. – Attenzione di votare bene.
Il giorno precedente a quello delle votazioni gruppi di amici a cavallo sono passati nelle vie del paese, sparando in aria perchè tutti ricordassero gli avvertimenti.
Quando è stato proclamato il risultato delle votazioni c’è stata grande festa perchè il candidato amico aveva vinto.
Don Alfonso Titta che non aveva votato bene ha avuto cento pecore sgarrettate, don Carmelo ha avuto la farmacia incendiata, ad altri sono stati tagliati gli alberi della proprietà…».

Avere in mano la polizia e i funzionari

«…Dopo l’unità d’Italia la mafia è sempre riuscita a far eleggere i suoi deputati, che alla Camera erano chiamati deputati di paglia. Votavano qualsiasi cosa che il Governo proponeva. Il Governo poteva sempre contare su di loro. Ne avevano in cambio dei piccoli favori, tali che in molte zone della Sicilia davano alla mafia un potere assoluto. I favori erano questi: che nei posti di comando fossero nominati di funzionari amici, che fossero trasferiti quei marescialli e quegli ufficiali di polizia che non si lasciavano corrompere…»

(Riassunto: I pezzi da novanta erano stati avvertiti che il fascismo avrebbe lottato contro di loro dopo che Mussolini aveva firmato il decreto di nomina per un prefetto con poteri straordinari con l’ordine di liquidare la mafia)
Don Calogero sembrava tranquillo, sorrideva. Per la prima volta si alzò davanti al consiglio.
Fu allora che fece il discorso che doveva essere ricordato per la profezia dei vent’anni, per il buonsenso e la lungimiranza.
– Che uomini siamo dunque, se non usiamo la ragione – cominciò a dire. – Una lotta inutile a noi non serve, dobbiamo stare ai tempi. Possiamo vivere solo se sempre sappiamo adeguarci alle situazioni. Noi non siamo i pezzi da novanta della religione, nè siamo quei pezzi da novanta  dello Stato che scatenano guerre per salvaguardare alcuni interessi e fanno milioni di morti. Noi non abbiamo accettato le regole che essi hanno imposto alla società a nostro danno, noi siamo liberi uomini d’affari. Lasciatemi dire perciò che dobbiamo avere sempre di mira i nostri interessi. Ora dobbiamo essere pazienti e astuti: càlati juncu, ca passa la china (piegati giunco, perchè passa la piena). Forse ci vorranno vent’anni ma alla fine avremo noi la vittoria.
Così disse don Calogero Vizzini e il discorso fece impressione…

La repressione
Ciò che accadde fu più terribile di quanto lo stesso don Calò aveva previsto. Il prefetto mori fece riesumare i processi che la magistratura siciliana coinvolta nella mafia aveva concluso per insufficienza di prove…Un periodo di terrore per la Sicilia…”

Perchè esiste la mafia

Lettera a Nitto Laforgia, Harward University:

«…avrai ormai capito che il fascismo, credendo di poter risolvere la questione con la forza, ha commesso un altro errore del quale molti in futuro pagheranno il conto. La repressione è servita solo ad approfondire il solco d’incomprensione che è sempre esistito tra noi e l’Italia. In Italia non capiscono i nostri problemi, non li hanno mai capiti, credono che la mafia possa essere eliminata con un’operazione di polizia. La mafia è un fatto sociale ed esiste per molti motivi, il principale di essi è che la ricchezza dell’isola è poca. Chi ha posseduto questa ricchezza ha sempre dovuto difenderla con la forza. Non c’è ricchezza per tutti, e dopo il 1812 i ricchi solo appoggiandosi ai mafiosi hanno potuto intimidire il popolo e tenerlo in servitù.
Duemila anni fa Scipione se volle fare la spedizione contro Cartagine dovette accordarsi con gli agrari siciliani, i ricchi di quel tempo. Anche oggi la classe ricca è quella degli agrari perchè la nostra organizzazione economica e sociale non è molto diversa da quella, anzi forse è peggiorata.
Solo se saranno scoperte nuove fonti di ricchezza in Sicilia l’organizzazione economico-sociale potrà cambiare, e solo allora la mafia sparirà, almeno la vecchia mafia.
So che in America i nostri mafiosi hanno in mano gran parte del potere, qui molti parlano di fondare un partito separatista, di staccare la Sicilia dall’Italia…».

La fine del fascismo

«…L’esercito americano venne dall’Africa e occupò la Sicilia. La resistenza delle nostre truppe fu minima, anche perchè dalla popolazione non ebbero aiuto. I siciliani accolsero invece trionfalmente gli americani, che arrivavano guidati dai mafiosi.
Il fascismo finì rovinosamente.
Il 20 luglio 1943 gli Alleati erano a Villalba e alti ufficiali americani presero contatto con don Calogero Vizzini, il solo che fosse in grado di assicurare l’ordine dell’isola.
In ogni paese furono nominati sindaci noti mafiosi. Vito Genovese era interprete di Charles Poletti, sovrintendente americano agli affari italiani, il figlioccio di don Calò era segretario del capo del Civil Affairs Office.

l’Italia era divisa e smembrata dalla guerra.
E quando nel 1944, dopo l’accordo di Salerno tra i sei partiti antifascisti, lo Stato cominciò a riorganizzarsi si trovò di fronte a un caos indescrivibile: in Sicilia dovette trattare con la mafia…»

L.M. (del servizio elettorale, a Palermo)

Il referendum del 2 giugno 1946 non andò come speravamo, la monarchia fu battuta.
Nell’impero di Salvatore Giuliano il re ebbe la maggioranza assoluta ma al di là, a S.Cipirrello, a S. Giuseppe Jato, a Piana degli Albanesi, i contadini volevano la riforma agraria e occuparono i feudi. Probabilmente furono essi a votare repubblica. E la repubblica vinse.

P.Z. (uomo politico, senatore della Repubblica)

Bisogna aver vissuto quei giorni in Sicilia, per capire. Dopo la vittoria del Blocco del Popolo i contadini sciamavano sulle terre. I nobili e gli agrari ci sollecitavano ad agire con la forza. Ci furono riunioni politiche, con gli “americani” formammo il Fronte Antibolscevico.
Il primo incontro lo avemmo in un grande albergo palermitano. – Non possiamo restare indifferenti mentre la santità della religione e della patria sta per essere travolta – iniziò a dire un vecchio gangster siculo-americano, arrivato apposta in quei giorni dagli Stati Uniti…

Pietro Tocco, giornalista dell’UNI

«…Ho seguito la storia degli ultimi mesi di vita di Salvatore Giuliano. Dopo Portella la sorte di molti politici era legata a lui. Se avesse reso pubbliche le responsabilità ne sarebbe nato un tale scandalo che persone del Governo e la stessa mafia ne sarebbero state travolte.
Turiddu (Salvatore Giuliano) era un grafomane, mandava lettere ai giornali. Ne ricordo una che diceva: – Complessi intrighi mi stanno intorno, i politici e i nobili per evitare la rovina devono aiutarmi a ottenere la grazia. Non credano di potermi ammazzare perchè i miei uomini renderebbero di pubblico dominio i nomi di chi ha ordinato la strage della Portella…»

Dice Aristotele:
da qualsiasi disgrazia l’uomo uscirà,

prendere coscienza di sè per liberarsi da ogni schiavitù.

Un direttore didattico

«Il rinnovamento deve cominciare dalla scuola. È chiaro che certe idee dei siciliani vanno cambiate: il falso senso dell’onore e l’abitudine all’omertà, che copre ogni delitto. La popolazione accetta d’essere guidata dagli assassini perchè li considera ancora oggi i suoi eroi.
L’opera deve iniziare sui banchi della scuola. Solo così possiamo salvarci.
In Sicilia mancano più di cinquemila aule.»

Un sindacalista

«La strada da percorrere è aperta e larga, c’è già l’esempio dei contadini. Finchè hanno sopportato e non hanno avuto coscienza dei propri diritti la mafia gli è stata sul collo, quando non hanno avuto paura di combattere hanno vinto.
La mafia è sopravvissuta alla trasformazione dell’economia, della tecnica, della politica, non saprebbe però sopravvivere alla trasformazione delle coscienze.
…Il Siciliano non ha fiducia nella legge perchè lo Stato ha aiutato sempre i ricchi. Noi sindacalisti lottiamo nelle fabbriche, nei cantieri, nei porti, da ogni parte perchè ogni uomo che lavora trovi la coscienza della propria dignità di cittadino e sappia difenderla».

Antonio Aniello, scaricatore di porto

«È una piaga diffusa nella Sicilia occidentale, incancrenita da secoli di povertà e d’ignoranza, ma sarà sanata. Già ignoranza e povertà stanno diminuendo.
Secondo me durerà invece a lungo la mafia internazionale. Quello è il cattivo governo che decide le sorti del mondo!»

Delitti su commissione in cambio di “piccoli favori”.

Enrico Mattei

Commento: questo libro faceva parte del programma didattico scolastico di uno dei miei fratelli è molto scorrevole ed è interessante e curioso come si trovino sempre delle analogie tra passato e presente.

Per approfondire QUI un’interessante intervista a Giuseppe Bufalari

 

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