“[Si] esige che la vittima torturata si lasci condurre dove si vuole senza protestare, che rinunzi a lottare e si abbandoni fino a perdere completamente la coscienza della propria personalità. E c’è una ragione.
[..] Essi sanno che distruggere la vittima prima che salga al patibolo [..] è il sistema di gran lunga migliore per tenere un popolo intero in schiavitù, assoggettato. Nulla è più terribile di questi esseri umani che vanno come automi incontro alla morte”. (Les jours de notre mort, 1947)
Egli non aveva fatto niente di male perché le cose di cui era accusato non erano crimini ma “azioni di Stato”, azioni che nessuno Stato straniero aveva il diritto di giudicare (par in parem imperium non habet); e perché egli aveva il dovere di obbedire e aveva compiuto atti “per i quali si viene decorati se si vince e si va alla forca se si perde”.
“Queste sono battaglie che le generazioni future non dovranno più combattere”, [..] dove per “battaglie” erano da intendersi quelle contro le donne, i bambini, i vecchi e altre “bocche inutili”.
Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini che si erano trasformati in assassini, era semplicemente l’idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo (“un compito grande, che si presenta una volta ogni duemila anni”) e perciò gravoso. Questo era molto importante, perché essi non erano sadici o assassini per natura, [..] perciò il problema era quello di soffocare non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri. Il trucco [..] consisteva nel deviare questi istinti, per così dire, verso l’io. E così, invece di pensare: che cose orribili faccio al mio prossimo!, gli assassini pensavano: che orribili cose devo vedere nell’adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle mie spalle!
Hannah Arendt da “La banalità del male”, 1963