C’è una cosa cosa che i genitori di oggi sembrano temere sopra tutto: parlare ai propri figli del dolore e della morte. Forse non si sentono adeguati, forse temono troppo questi due termini perchè riflettono le loro stesse fragilità. Il dolore e la morte vengono espulsi dal mondo affettivo del bambino.
I bambini hanno soprattutto paura delle nostre paure, delle paure degli adulti; il loro timore finisce per riflettere la nostra incongruità di educatori, il nostro disagio e la nostra difficoltà a pensare la sofferenza e la perdita con sufficiente serenità.
Eppure l’esperienza del dolore e della morte è essenziale, strategica per la costruzione dell’identità del bambino.
Un tempo, poichè si nasceva e cresceva in famiglie assai più numerose di quelle attuali e in cui coabitavano diverse generazioni, accadeva spesso che i bambini assistessero alla malattia e alla morte di un familiare anziano. Effettivamente un evento così drammatico era difficile – lo è anche oggi – da spiegare a un bambino, quindi i genitori e gli adulti della famiglia sentivano, inconsciamente, di dover mettere in atto una strategia in grado di tutelare il piccolo da quella grave e dolorosa perdita.
Oggi il panorama appare opposto, i bambini vengono privati di queste esperienze essenziali allo scopo di evitare loro un’esperienza di dolore, un trauma giudicato inutile. Così non solo non possono più assistere e capire la malattia del nonno, ma non elaborano nemmeno la sua perdita. L’esperienza negata rende più fragile il bambino proprio perchè privato della cognizione affettiva contenuta nel dolore e nella morte. Non solo non ne capirà il senso, ma non potrà che temere e rimuovere quegli eventi.
Ciò cui invece un bambino viene esposto frequentemente è lo spettacolo del dolore e della morte, ovvero il loro lato anaffettivo, quello privato di senso. Così la morte reale equivale a quella vista centinaia di volte in un telefilm o al telegiornale, ma anche a quella ancor più virtuale di un videogioco. La morte per le nuove generazioni rischia dunque di essere un Game-over.
di Paolo Crepet, estratto da Non siamo capaci di ascoltarli, Einaudi 2001