Se mi chiedessero di scrivere una lettera
a una bambina che sta per nascere.
lo farei così.
Vorrei che i tuoi Natali non fossero colmi di doni,
— segnali a volte sfacciati delle nostre assenze —
ma di attenzioni.
Vorrei che gli adulti che incontrerai
fossero capaci di autorevolezza, fermi e coerenti:
qualità dei più saggi.
Mi piacerebbe che qualcuno ti insegnasse
a inseguire le emozioni come gli aquiloni fanno
con le brezze più impreviste e spudorate;
tutte, anche quelle che sanno di dolore.
Mi piacerebbe che ti dicessero
che la vita comprende la morte.
Perché il dolore non è solo vuota perdita
ma affettività,
acquisizione oltre che sottrazione.
La morte è un testimone
che i migliori di noi lasciano ad altri,
così nasce il ricordo,
la memoria più bella
che è storia della nostra stessa identità.
Mi piacerebbe che qualcuno ti insegnasse
a stare da sola,
ti salverebbe la vita.
Non dovrai rincorrere la mediocrità
per riempire vuoti,
né pietire uno sguardo
o un’ora di amore.
Impara a creare la vita
dentro la tua vita
e a riempirla di fantasia.
Adora la tua inquietudine
finché avrai forze e sorrisi,
cerca di usarla per contaminare gli altri,
soprattutto i più pavidi e vulnerabili.
Dona loro il tuo vento intrepido,
ascolta il loro silenzio con curiosità,
rispetta anche la loro paura eccessiva.
Mi piacerebbe che la persona che più ti amerà
possa amare il tuo congedo
come un marinaio
che vede la sua vecchia barca allontanarsi
e galleggiare sapiente lungo la linea dell’orizzonte.
E tu allora porterai quell’amore sempre con te,
nascosto nella tua tasca più intima.
di Paolo Crepet
da “Non siamo capaci di ascoltarli”, Einaudi 2001